La libertà e i diritti della difesa, il ruolo del giudice, l’esigenza di riforme, il divario tra Nord e Sud. «Partiamo da un dato. L’avvocato penalista del Sud deve confrontarsi con una realtà ambientale e processuale a dir poco complessa. La scelta di celebrare l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti a Catanzaro è stata quanto mai azzeccata. È stata una scelta evidentemente dettata dalle gravi difficoltà in cui svolgono la propria funzione gli avvocati calabresi, costretti ad operare in un clima di ingiusto ed irragionevole sospetto».

Il Sud paga lo scotto di una realtà resa difficile dalle troppe disfunzioni, da problemi irrisolti, da degrado e criminalità dilaganti. Come tutto questo pesa sulla quotidianità giudiziaria?
«Come sappiamo, strumento centrale nell’attività di contrasto alle mafie è, indubbiamente, l’aggravante prevista dall’art. 416-bis, comma 1, del codice penale, talvolta utilizzata con eccessiva disinvoltura. La giurisprudenza ha, infatti, inteso dilatare la portata operativa dell’aggravante, con il risultato di ampliare il sistema repressivo del cosiddetto “doppio binario” anche a comportamenti di mera connivenza o solidarietà alla criminalità organizzata. Si è arrivati, quindi, ad un vero e proprio automatismo nell’applicazione dell’aggravante, soprattutto nel Meridione, dove notoriamente esiste la maggiore concentrazione delle attività criminali di tipo mafioso».

Il rapporto tra difensore e assistito, soprattutto in caso di indagati o imputati accusati di reati di criminalità organizzata, è uno degli aspetti più delicati del nostro sistema giudiziario. È un rapporto che poggia sulla base della libertà e dei diritti della difesa, ma sul quale molto spesso la magistratura entra a gamba tesa in nome di sospetti o esigenze investigative.
«Si registrano, soprattutto nel Sud Italia, molteplici violazioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale, laddove vengono trascritte, in violazione dei precisi parametri normativi, conversazioni tra avvocato ed assistito. Le conversazioni del difensore devono rimanere inviolabili, perché espressione irrinunciabile del diritto di difesa. Gli investigatori devono abbandonare la cultura del sospetto ed interrompere immediatamente l’ascolto delle conversazioni tra l’avvocato e il proprio assistito».

La cultura del sospetto può portare a coltivare diffidenza nei confronti dell’avvocato che assume la difesa di un boss, di un latitante, di un soggetto ritenuto pericoloso, e quindi a immaginare anche eventuali presunte connivenze?
«Non ritengo sussista un problema, salvo rarissimi casi, di connivenza tra l’avvocato e il proprio assistito. Del resto, voglio ricordare che tanti, troppi avvocati penalisti meridionali sono stati barbaramente uccisi dalla criminalità organizzata solo per aver svolto con professionalità il proprio mandato difensivo. Solo pochi anni fa, non lontano dalla splendida cornice del Teatro Politeama di Catanzaro, è stato tragicamente ucciso, a soli 43 anni, il noto penalista catanzarese Francesco Pagliuso, vittima innocente della criminalità organizzata».

Da qui la scelta di aprire l’anno giudiziario dei penalisti in una città del Sud tra quelle più provate da carenze e criticità?
«L’Unione delle Camere cenali Italiane ha deciso, correttamente, di riunire tutti i penalisti italiani nel capoluogo di provincia calabrese per esprimere vicinanza e solidarietà agli avvocati che operano in quelle difficili zone. Diciamolo con chiarezza, al di là delle colte e convincenti conclusioni del presidente Gian Domenico Caiazza, sarebbe stato opportuno denunciare con maggiore fermezza l’attacco alla funzione difensiva che, talvolta, si registra in alcune zone nel nostro Paese».

Da tempo gli avvocati penalisti denunciano, e con sempre maggiore frequenza, il ruolo eccessivamente marginale che viene riservato al difensore all’interno del processo, come se vi fosse uno sbilanciamento fra le parti processuali a vantaggio degli organi inquirenti e a svantaggio della difesa. Come se avesse perso spessore la figura del giudice.
«Il caso Pittelli, ad esempio, è un caso che presenta molteplici elementi di eccezionalità. Un duplice arresto per i medesimi fatti e, soprattutto, un aggravamento della misura cautelare a seguito dell’inoltro di una lettera all’onorevole Mara Carfagna, segno tangibile della disperazione di un uomo che si è sempre dichiarato innocente. E stupisce profondamente che un giudice non abbia compreso quanto era di solare evidenza e cioè che quella missiva, forse improvvida e frutto di disperazione, non costituiva certamente un tentativo di inquinamento delle prove».

Come mai, secondo lei?
«Se ciò è accaduto è perché evidentemente la figura del giudicante ha smesso di esercitare un controllo effettivo sull’attività dei pubblici ministeri».

Che giudice è quello di adesso?
«Il giudice, negli ultimi tempi, si è smarrito e ha perso di vista quello che è il suo unico compito: non già quello di contrastare fenomeni criminali, che spetta esclusivamente alle forze dell’ordine espressione del potere esecutivo, bensì quello di fornire il servizio giustizia nel rispetto dei diritti e delle garanzie dei singoli. L’unico rimedio, dunque, per garantire l’autonomia e l’indipendenza del giudice è la separazione delle carriere».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).