Luigi Marattin, economista e parlamentare, è leader del Partito Liberaldemocratico. Da sempre impegnato sui temi della finanza pubblica, ha fatto della semplificazione fiscale e della difesa del ceto medio il suo cavallo di battaglia.

Onorevole Marattin, il governo ha annunciato nuove misure sull’Irpef e sull’estensione della flat tax. Qual è il suo giudizio complessivo su questa impostazione?
«Se il taglio dell’aliquota Irpef al 33% si limiterà ai redditi fino a 50.000 euro lordi annui saremo contrari, perché in quel caso sarà un intervento irrilevante: un caffè al giorno, non di più. Se invece sarà fino a 60.000 euro, saremo favorevoli, per un semplice motivo. In questo modo chi guadagna 2.500 euro o poco più – che oggi sopporta un’aliquota che all’estero scatta su livelli di reddito tripli o quadrupli – avrà uno sconto consistente, finalmente. Perché si tratta di quel ceto medio che viene sistematicamente massacrato: non ha accesso a benefici o sussidi di nessun tipo e al contempo subisce un massacro fiscale che, secondo un rapporto Ocse, è il peggiore tra i 38 paesi occidentali. In Italia, da sinistra e pure da destra, vengono visti come ricchi privilegiati. Ma invece sono coloro che, con mille difficoltà, si caricano il resto del Paese sulle spalle. E a loro non ci pensa nessuno».

Lei ha spesso sottolineato la necessità di semplificare il sistema fiscale italiano. Ritiene che le misure proposte vadano nella giusta direzione o siamo di fronte all’ennesima riforma parziale?
«La proposta del Partito Liberaldemocratico è radicale: lasciare solo le deduzioni e detrazioni su spese mediche, interessi passivi, i versamenti di previdenza complementare e la coda dei bonus edilizi su interventi già fatti. Per il resto, eliminare tutte le centinaia di tax expenditures che hanno reso il nostro sistema fiscale uno dei più complicati al mondo, e che avevano solo la funzione di accontentare piccoli gruppi di interessi. E si usi il risparmio per ridurre, e di parecchio, le aliquote, indicizzando al contempo gli scaglioni all’inflazione, così da permettere il recupero del fiscal drag. Per la prossima legislatura la nostra promessa è chiara: in cinque anni tagliare tre punti di Pil di spesa pubblica, da destinare integralmente all’abolizione dell’Irap e a un ulteriore abbassamento delle aliquote Irpef. Su questa proposta chiederemo il consenso agli italiani alle politiche del 2027, senza paure o ambiguità».

Sul fronte Irpef, il ministro Giorgetti parla di alleggerimento per i redditi medio-bassi. È una scelta che condivide, oppure la ritiene insufficiente rispetto agli obiettivi di equità fiscale?
«È una delle più grandi ipocrisie del dibattito pubblico italiano. Oggi i redditi bassi già praticamente non pagano più Irpef: ci sono più di una decina di milioni di contribuenti, negli scaglioni più bassi, che già pagano zero o pochi euro al mese. Chi invece è letteralmente massacrato in Italia è il ceto medio. Secondo noi tutte le risorse vanno concentrate qui, senza paura di dire cose scomode. Sui redditi bassi il problema è un altro: ad essere basso è lo stipendio lordo. E per alzarlo, quindi, non serve agire sulle tasse ma sulla produttività. Ed è questo il focus delle tre ulteriori proposte che già prima dell’estate abbiamo fatto al governo per la Legge di Bilancio».

Quali sono?
«La prima è detassare completamente, senza più il limite di 3.000 euro e in maniera strutturale, gli accordi di produttività aziendali o territoriali. La seconda è detassare gli aumenti retributivi che vengono dalla contrattazione decentrata.
La terza è ridurre del 50% per cinque anni il carico fiscale alle micro-imprese che si fondono. Tre proposte che costano poco. Proponiamo al governo di rinunciare ad ogni intervento sul sistema previdenziale e destinare invece quelle risorse a questo. In più tra un mese proporremo a Giorgia Meloni un intervento di riordino del welfare aziendale: uno strumento utilizzato poco e male, ma che invece sarebbe preziosissimo».

Il ministro Giorgetti insiste sul principio di premiare chi lavora e produce. Condivide questo approccio? Quali correttivi proporrebbe per renderlo compatibile con un sistema progressivo ed equo?
«C’è un punto di cui quasi nessuno parla. Una commissione tecnica ha appena finito un prezioso lavoro sulla riscossione, che come noto in Italia oggi è poco più di una barzelletta: si incassa circa un euro su dieci. I pochi che se ne sono accorti, tra cui alcuni neo-populisti di sinistra, hanno subito fatto partire il ritornello “ah, si mettono le mani nelle tasche degli italiani”. Noi del Partito Liberaldemocratico invece siamo gente seria. E sapete cosa diciamo? Vogliamo far diventare la riscossione italiana una cosa seria, dandole i poteri che esistono da decenni all’estero? Siamo pronti. A due condizioni. La prima è rendere radicalmente più leggero e più semplice il sistema fiscale, come dicevamo prima: le tasse si pagano più volentieri se sono poche, se sono semplici e se lo Stato dimostra di spenderle come noi spenderemmo le nostre risorse private.
La seconda è fissare un automatismo secondo cui ogni euro strutturalmente ricavato dalla lotta all’evasione non vada ad aumentare il calderone della spesa pubblica, ma sia obbligatoriamente destinato ad abbassare le tasse a chi già le paga. Solo così, con un nuovo patto fiscale tra Stato e contribuente, potremo diventare un Paese fiscalmente serio. Ora non lo siamo».

In quali aspetti, se ce ne sono, lei riconosce una convergenza di vedute con il ministro Giorgetti sulle misure fiscali annunciate?
«Ci sono due Giorgetti. Quello che sembra Schäuble, e parla di serietà, rigore dei conti, efficienza. Quello ci piace. Poi c’è l’altro Giorgetti, il vice-segretario del partito il cui segretario nazionale e i vari responsabili economici parlano ogni giorno di spendere decine di miliardi per mandare in pensione la gente prima, aumentare la spesa pubblica o premiare chi le tasse non ha alcuna intenzione di pagarle. Da anni stiamo ancora cercando di capire come facciano a stare insieme queste due anime. Ma capita, quando la politica è poco più che una enorme recita».

Oggi e lunedì la Cgil ha proclamato uno sciopero in settori strategici, dalle industrie ai trasporti, dichiaratamente “per Gaza”. Qual è il suo giudizio su questa iniziativa?
«Se avessero indetto uno sciopero per chiedere semplicemente a quei macellai di Hamas di rilasciare gli ostaggi che sta torturando a morte da quasi due anni, e permettere così la fine di questa insensata guerra, avrei anche partecipato. Purtroppo però non mi pare sia questo il caso».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.