Politica
Cittadinanza, al Parlamento toccava da sempre. Il solito gioco delle colpe

Francamente, era difficile compiere un errore più grossolano. Eppure, alcuni tra i promotori del referendum, commentando il quesito sulla cittadinanza, si sono spinti a dire: “Ora tocca al Parlamento”. No, non “ora”: al Parlamento toccava da sempre. E semmai, proprio prima di avventurarsi in un’iniziativa referendaria tanto divisiva quanto prevedibilmente fallimentare, sarebbe stato doveroso coinvolgerlo. Bastava un minimo di lucidità, non servivano profezie o Cassandra: l’esito era scritto.
Ma si è scelta comunque la scorciatoia del referendum – anzi, la si è inseguita con entusiasmo – convinti che l’appello alla piazza bastasse a surrogare il dialogo politico. Ancora una volta si è usata la partecipazione popolare come strumento di pressione, non come espressione consapevole. Così, la cosiddetta “mobilitazione” ha preso la forma di un’improvvisata corsa al consenso, che ha finito per tradursi in un boomerang clamoroso.
E il risveglio è stato amaro. Sul quesito della cittadinanza, l’esito parla di un fallimento netto, senza attenuanti. Quasi il 40% di No, con un’astensione che, se possibile, ha solo ridotto l’entità dello scivolone. È il segnale evidente di un errore politico marchiano, di un azzardo che non ha nulla di coraggioso ma tutto dell’azzardato, del superficiale, dell’egoistico. Perché forzare la mano su una materia tanto delicata, già fragile nel dibattito parlamentare, è stato un atto irresponsabile. Cercare il colpo di mano su un tema come la cittadinanza, che richiede confronto, studio, ascolto e senso delle istituzioni, ha finito per irrigidire ulteriormente le posizioni.
Già dalla scorsa estate era chiaro quanto difficile fosse trovare una mediazione ragionevole, ad esempio sullo ius scholae. E ora, dopo l’autogol referendario, ci si appella al Parlamento, come se nulla fosse? Come se non si fosse appena bruciata una delle poche possibilità di aprire un dialogo serio, concreto, responsabile? La verità è che da oggi si parte da un punto ancora più arretrato. Laddove si provava faticosamente a costruire ponti, si dovrà ora ricominciare in salita, tentando di ricucire uno strappo profondo. E serviranno tempo, fatica, pazienza, per recuperare la credibilità necessaria a parlare di cittadinanza senza che il dato referendario venga sbandierato come prova definitiva. Perché questo accadrà: chi era scettico userà quel quasi 40% come scudo, come freno, come argomento ultimo per non fare. E ogni ragionamento tornerà indietro. E ogni tentativo di avanzamento verrà bloccato da un precedente che i promotori, con ostinazione e leggerezza, hanno contribuito a creare.
Sì, tempo perso. Tempo che si paga. In dignità, in civiltà, in opportunità sprecate per il Paese. Perché questi temi, quelli che definiscono il nostro patto civile, dovrebbero essere sottratti al teatrino delle tifoserie, del tutti contro tutti. Ora ognuno recita la propria parte. E la tribuna post-voto si anima di analisi sommarie, di verità semplificate, di giudizi impacchettati. È il solito gioco delle colpe, delle sintesi raffazzonate. Ma la realtà è più semplice: il voto è già la sua sintesi. Il messaggio è arrivato forte. E non serve rincorrerlo con letture di comodo.
Insomma, amici referendari: se oggi affrontare con serietà il tema della cittadinanza sarà ancora più difficile di ieri, la responsabilità – politica e culturale – è tutta vostra. E sarà bene che, almeno stavolta, qualcuno lo dica chiaro.
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