Se si parla di cultura delle autonomie territoriali e di istituzioni locali, l’Emilia-Romagna, che peraltro non è mai per la sinistra una regione qualunque, è il riferimento per eccellenza. Stupisce un poco, dunque, che non sia stato dato un rilievo nazionale alla rinuncia, annunciata dal suo presidente Michele De Pascale ad alta voce, con orgoglio e senza turbamento, a percorrere ancora la strada della autonomia regionale differenziata.

Secondo me era ora. Non perché la approvi, anzi, a suo tempo avevo condiviso l’opinione di Claudio Velardi contraria alla demonizzazione del decreto Calderoli e favorevole ad esplorarne le potenzialità. Era ora perché cancella l’ipocrisia che ancora nasconde l’estinzione a sinistra dell’interesse per un vero e pieno regionalismo. Eppure sappiamo quanto l’autonomia dei territori sia parte importante della tradizione socialista, ricordiamo l’annosa accusa del PCI alla DC di non attuare il dettato costituzionale; e infine dovrebbero tutti sapere che la sussidiarietà ispira la nostra Carta e gli stessi Trattati europei.

Ciò nonostante, il regionalismo-davvero è durato ben poco: giusto i primi anni ’70, con la rinnovata speranza della pianificazione, poi, sull’onda del successo di Bossi, assistemmo ad un capolavoro del trasformismo italiano, per cui tutti divennero addirittura federalisti, altro che regionalisti! infine, l’apoteosi: la riforma del titolo V della Costituzione. Sarebbe potuta iniziare la stagione delle regioni, e invece comincia il declino: il primo che mostra di non crederci più è proprio Salvini con la sua idea della Lega partito nazionale; il governo ignora gli obblighi per tutte le materie da gestire in regime di concorrenza delle regioni, le regioni piano piano accettano un ruolo subalterno là ove avrebbero potere legislativo e piano piano approvano prevalentemente leggi di spesa e fanno amministrazione.

Sul decreto Calderoli la sinistra assume una posizione totalmente contraria, quando invece la riforma proposta da Bonaccini, per non lasciare a Veneto e Lombardia il monopolio del regionalismo più che per vera convinzione, accettava l’idea che le regioni potessero scegliere le competenze da assumere. Insomma, il regionalismo appare morto e De Pascale, con onestà, c’ha messo su la pietra tombale, per quell’Emilia-Romagna che dovrebbe esserne la bandiera, ma mi pare anche in nome di tutta la sinistra italiana. Lui dice che no, che vuole un regionalismo vero, e ha ragione ad affermare che il Titolo V non ha funzionato e andrebbe riscritto. E allora che si cominci a lavorare ad una proposta alternativa. A questo punto la attendiamo.

Se invece davvero si pensa che l’Italia debba essere un paese di comuni a fare da corollario allo stato centrale, allora se ne dovrebbero trarre le conseguenze chiedendosi se per coerenza non si possa e debba fare a meno delle regioni come tali, e passare oltre. Sarebbe una colossale magnifica operazione di spending review, nonché di distribuzione di risorse umane di qualità a coprire le grandi carenze di personale dello stato, dei comuni e di province da rigenerare, almeno in parte. Sic transit gloria mundi.

Mauro Felicori

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