L’attacco che Giorgia Meloni ha rivolto a Maurizio Landini, dal palco della Cisl, sembra aver colpito nel segno. Anche le parole di Luigi Sbarra sono state tenere, ma la stilettata della premier ha fatto centro. La presidente del Consiglio nel suo intervento, e nel ringraziare la Cisl per l’atteggiamento costruttivo e la disponibilità al dialogo fattivo, ha bollato la linea del leader della Cgil (pur non nominandolo mai) come promotrice di una “tossica visione conflittuale che anche nel mondo del sindacato qualcuno si ostina ancora a sostenere”.

Tossicità

La frecciatina può essere raccolta anche dalla Uil, che al momento sposa per intero le posizioni della Cgil. Sembrano passati secoli da quando l’ex sindacato socialista e la Cisl sfidavano con il governo Craxi l’opposizione comunista sulla “scala mobile”; eppure sembra che oggi più che mai prevalga un posizionamento ideologico senza precedenti, che la Cgil continua ad alimentare. La “tossicità” evocata da Meloni è un riferimento diretto alla “rivolta sociale” brandita da Landini nella sua anacronistica e superata visione del sindacato. Del resto, basterebbero i numeri sulla fiducia dei lavoratori nel sindacato (mai così bassi) per interrogare i vertici delle stesse organizzazioni sulla cecità ideologicamente auto-indotta delle loro posizioni.

Ma non sembra pervenuto alcun segno di rinvigorimento. Al contrario, Landini ha voluto ironizzare sulle parole di Giorgia e allietare la platea con un sermone sull’importanza della “conflittualità” in una democrazia. Per quanto si trovi chiaramente nel bel mezzo di una metamorfosi che dovrebbe renderlo il leader della sinistra per il prossimo giro di giostra, è chiaro che – rivestito del mantello di Licurgo – non si trova propriamente a suo agio. Altrimenti avrebbe dovuto sottolineare che giova alla democrazia non lo scontro in quanto tale, bensì una dialettica che giunge alla risoluzione dei problemi sociali attraverso la giusta, legittima e corretta conflittualità dialogica.

Il sindacato non deve assumere posizioni politiche e partitiche, ma difendere e tutelare i diritti dei lavoratori. Altrimenti si trasforma in qualcosa di diverso e da “parte sociale” diviene “parte politica”, ma nel senso più ideologico del termine. Ed è qui che ritorna la sensazione che Landini punti a essere la spina nel fianco di Elly Schlein, in chiave massimalista. Perché la lotta al Jobs Act non è contro la temibile destra, ma contro il Pd che di quella legge ne fece una bandiera durante il governo Renzi.

I dem cosa faranno?

I dem cosa faranno? Rinnegheranno sé stessi? Sosterranno un referendum contro una misura varata nei 10 anni di permanenza al governo? Il Partito democratico sperava che la Consulta accogliesse il quesito sull’autonomia differenziata, così da concentrare gli attacchi contro il governo, evitando l’imbarazzo di trovarsi a un bivio esistenziale. Intanto i riformisti interni scalpitano e non sembrano intenzionati a fare un “mea culpa” su input di Landini, a caccia di un’opa quasi ostile sulla sinistra.

Questa volta Schlein non potrà fare sfoggio dei soliti panegirici, ma dovrà assumere una posizione chiara e accettabile dal partito. Con il rischio che il referendum non superi il quorum, assumendo su di sé de relato il peso di una sconfitta politica ben più grave di un risultato negativo. De facto consegnando moralmente il partito a Landini, che dalla sua sta sfoderando una vetusta dialettica da “lotta di classe” già superata nella seconda metà del Novecento. Lo fa per finalità politiche, lontane dalle battaglie utili per i lavoratori.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.