Cazzolate
Bussole politiche
La sinistra ha perso il voto degli operai. Il viaggio di Astolfo sulla Luna per riprendersi quel popolo senza fiducia
Si racconta che un importante dirigente comunista dell’immediato Dopoguerra affrontava la questione del lavoro come se si dovesse aprire una matrioska. “La classe operaia sono i metalmeccanici – diceva – I metalmeccanici sono la Fiat; la Fiat – concludeva – è la catena di montaggio di Mirafiori”.
Maurizio Landini non si discosta da quelle semplificazioni e ne amplia il contesto di riferimento. Per il segretario della Cgil (secondo le motivazioni a sostegno dello sciopero generale del 29 novembre) il governo è delegittimato perché la coalizione che gli ha votato la fiducia non rappresenta la maggioranza del corpo elettorale a causa dell’astensionismo. Di conseguenza sono i lavoratori e chi li rappresenta che devono essere “ascoltati”, a prescindere da due circostanze non eludibili: non tutte le organizzazioni sindacali sono d’accordo con la Cgil (e la succursale della Uil) né i lavoratori che sono scesi in piazza in quella giornata (anche ammesso che fossero 500mila) hanno titolo per rivendicare una rappresentatività generale di 16 milioni di dipendenti e di altrettanti pensionati.
Il fatto è che non basta evocare il lavoro per evitare analisi sbagliate, politiche inadeguate e per dare corso a momenti di demagogia che travalicano la realtà, riducendola alla mercé di una ideologia o a strumento di una lotta politica. Il lavoro è un tema genetico della sinistra e intorno a esso i partiti storici delle classi lavoratrici si interrogano sul loro rapporto con i lavoratori che è in crisi in tutte le società sviluppate, in particolare in Europa, tanto che l’elettorato tradizionale della gauche si è spostato a destra.
Conosciamo la narrazione di Landini: “Negli ultimi anni – va dicendo – il mondo del lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, i precari, i giovani non sono stati ascoltati. E addirittura le politiche fatte, in molti casi sia da governi di destra sia da governi che si richiamavano alla sinistra, hanno peggiorato la condizione di vita e di lavoro delle persone”. Non è la prima volta che il leader sindacale manifesta una sua particolare “dottrina”: non importa se gli iscritti alla Cgil votano numerosi per i partiti di destra o populisti, se poi si riconoscono nelle politiche del sindacato, in nome di interessi e istanze comuni a tutti i lavoratori. Ovviamente la questione rimbalza sui partiti di sinistra, i quali – diversamente dal sindacato – hanno a che fare con elettori che dispongono di una sola identità da usare al momento del voto.
Nessuno si chiede, però, per quali motivi settori importanti delle classi lavoratrici hanno abbandonato la sinistra e saltato il fosso dall’altra parte. In verità – secondo un’interpretazione classista dei rapporti politici e sociali – coloro che votano per FdI o per la Lega non passano “dalla parte dei padroni”. Anzi, ambedue le formazioni combattono un nemico comune a settori della sinistra: la società aperta nella quale le libertà politiche sono l’altra faccia della medaglia di quelle economiche; il neoliberismo e la globalizzazione a cui si reagisce o retroagendo nel sovranismo e nell’autarchia o inseguendo la chimera di “un altro mondo è possibile”.
Perché la sinistra ha perso gli operai
Qual è la “colpa” della sinistra? Perché ha perduto il mandato di rappresentanza delle classi lavoratrici? I gruppi dirigenti – questa è la diagnosi del complesso di colpa – per logiche di potere o per smarrimento culturale, sono stati affascinati e si sono lasciati coinvolgere dal neoliberismo e si sono resi complici di politiche economiche che hanno annichilito i diritti dei lavoratori. Pertanto occorre tornare alle origini, ai valori della sinistra per andare a riprendersi quel popolo che non ci crede più. Quando sento questi discorsi, mi torna sempre in mente l’Astolfo di Ludovico Ariosto che va sulla Luna a recuperare il senno di Orlando. Fuor di metafora, la terapia è la solita: tocca ai partiti di sinistra adottare politiche adeguate a rappresentare il mondo del lavoro. In questo modo, però, non si sfugge a una constatazione inquietante: è la destra che si è messa a portare avanti politiche di sinistra oppure è la sinistra che deve adeguarsi alle politiche di destra. Sempre che ci sia qualcuno in grado di fare questa distinzione.
Oggi – andando alla ricerca del tempo perduto – ci si interroga se sia più di sinistra un progetto compiuto di riforma del mercato del lavoro come il Jobs Act o un’avventura legislativa, veramente inservibile, come il decreto dignità del Conte 1. Tony Blair ha governato per 10 anni nel Regno Unito, ma è stato considerato il principale responsabile della crisi della sinistra in Europa. Durante l’ultima campagna per le elezioni politiche, fu proprio Enrico Letta (un “fine dicitore”, se messo a confronto con le parole in libertà di Elly Schlein) a sconfessare un’intera stagione di egemonia della sinistra riformista: “Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il lavoro povero e precario. Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico”. È stato più innovativo il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici del 2016, improntato sul diritto individuale alla formazione e sul primato della contrattazione decentrata, o quelli successivi del “rétour à la normale”? È più innovativo il modello di relazioni industriali imperniato sull’autonomia dei grandi soggetti collettivi o il progetto di irreggimentazione legislativa (dalla rappresentanza all’estensione erga omnes dei contratti di categoria, al salario minimo legale)?
La tradizionale contrapposizione capitale/lavoro sul piano economico e destra/sinistra su quello politico non coincide più con quella di conservazione/innovazione. Il compito della sinistra oggi è quello di unificare e rappresentare un blocco di forze dell’impresa, del lavoro, della ricerca e della cultura, che siano innovative, cosmopolite, aperte alle nuove tecnologie, competenti e competitive, assicurando loro l’eguaglianza delle opportunità, ma premiando la loro capacità di crescere grazie alla tutela garantita dalla loro professionalità.
È una selezione da compiere con il bisturi o con il cacciavite all’interno dei diversi corpi sociali, non con l’accetta che spacca in due parti società entrambe colluse con il virus della conservazione, ma nello stesso tempo aperte a un messaggio di cambiamento. La società del merito, delle responsabilità e dei doveri non è estranea né insensibile a quella dei bisogni. Ma non concede nulla alla devianza del “dirittismo”, perché una società giusta non può essere una notte in cui tutte le vacche sono nere. Gli esseri umani “sono creati uguali”, ma fanno fruttare diversamente i talenti ricevuti.
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