C’era anche lui, giusto un mese fa, sugli scranni di Palazzo Marino dove era stato seduto da sindaco, alla prima assemblea dell’associazione degli ex consiglieri comunali di Milano costituita di recente su iniziativa del presidente Luigi Corbani. Paolo Pillitteri era gravemente malato, un po’ pallido e accompagnato dalla sua compagna Cinzia Gelati, con cui si era sposato in seconde nozze due anni fa. Ma non aveva voluto né potuto mancare. Per l’amore nei confronti della sua Milano e delle sue istituzioni. È stato un sindaco brillante e colto, pieno di senso dello humor, troppo spesso scambiato per faciloneria. Il 3 novembre scorso, in quella stessa aula consiliare che aveva visto furibondi incrociarsi di spade, in epoche in cui ancora contavano qualcosa le assemblee elettive e il parlamentino milanese in particolare, sono venuti in tanti, per salutare lui. Vecchi amici e compagni, e pure avversari politici. Perché Paolo Pillitteri era uno di quelli che lasciano un’impronta. Non è difficile andare indietro con la memoria.

Prima di tutto per sottolineare che Paolo non è mai stato semplicemente “il cognato” di Bettino Craxi, per il semplice fatto che si era sposato con Rosilde, sorella del leader socialista. Pillitteri non era solo un intellettuale, un bravo giornalista e un grande appassionato di cinema, indimenticabile il suo gesto alla Totò, quando ghignava nell’aula “Ma mi faccia il piacere!”. Era anche un fine politico, a volte più intuitivo del cognato Craxi. Era uno che aveva capito, per esempio, quando era stato il momento di far fare gli scatoloni ai comunisti, con cui aveva governato insieme al partito dei Verdi, e di avviare, in piena tangentopoli, la città di Milano verso lidi più sicuri e tranquilli. Rinunciando in questo modo alla carica di sindaco per passare a quella più politica di capogruppo del suo partito, il Psi, e consegnando lo scranno più alto dell’aula a Piero Borghini, un ex comunista gradito a Bettino Craxi, che imbarcava la Dc e mandava a casa i comunisti, costretti, dopo tanti anni di dominio della città (con una sola breve interruzione tra il 1985 e l’87) a sgomberare le stanze del potere milanese e a riporre le proprie speranze di tornare a governare Milano. Non torneranno più, se non vent’anni dopo, il 16 maggio del 2011. Ma in quei giorni non avevano più speranza. Anche perché un mese dopo, il 18 febbraio 1992, fu arrestato Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, e la cosa riguardò molto da vicino anche gli uomini e le donne del Pci che insieme ai socialisti avevano governato Milano.

Parlare di Paolo Pillitteri è raccontare Milano. Quella degli anni ottanta di cui fu protagonista, che viene sinteticamente e superficialmente chiamata la città “da bere” e che era invece la metropoli dello sviluppo, soprattutto intellettuale. Basterebbe citare le decine di circoli culturali che esistevano allora e che non ci sono più, da quello intestato a Filippo Turati, fino alla Casa della cultura e quelli più periferici come il Perini di Quarto Oggiaro. Lì si discuteva e ci si appassionava, era la ricchezza della città. Poi il vento gelido e malefico di Mani Pulite ha spazzato via tutto. Ricordo ancora quell’aereo per Roma, era ormai aprile del 1992, in cui ci ritrovammo, dopo l’elezione al Parlamento, con Carlo Tognoli, uno dei sindaci più amati di Milano, e Paolo Pillitteri. Certo, loro si erano salvati dall’arresto, ma non dalla gogna, e spesso erano costretti a viaggiare un po’ mascherati. Del resto, su quello stesso volo, era scoppiato un applauso quando era salito l’eroe del momento, Tonino Di Pietro.

Paolo, il milanese Paolo, il socialista Paolo, aveva capito subito come sarebbe andata a finire, perché era un po’ più sveglio degli altri. Non avevano voluto ascoltarlo. Ascoltiamo noi, allora, le parole che mi disse quando pubblicai “tangentopoli” e “1992”, i due libri su quel periodo che avevamo convissuto, insieme a tanti altri che non ci sono più, alcuni dei quali si sono tolti la vita. Non dimenticherò mai Paolo che piangeva nell’aula dove il presidente Napolitano leggeva con la voce rotta la lettera del suicida Sergio Moroni.

Se c’è un errore che i politici dell’epoca fecero, diceva Pillitteri, è stato quello di non voler capire che Milano non era e non è una delle tante città italiane. E una sintonia tra una magistratura accanita e il mondo degli imprenditori “è ben di più di un pranzo di gala”. È qualcosa che isola la politica, con cinismo. Lo stesso cinismo con cui i grandi imprenditori hanno usato allora i quotidiani di cui erano i proprietari. È come se si fosse levato da quel mondo, un po’ in toga, un po’ in fabbrica, un grido, che era un coro, nei confronti dei partiti “Arrendetevi, siete circondati!”. È questo mio amico e compagno che mi piace ricordare, il politico intelligente e brillante e più intuitivo degli altri.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.