Giustizia
Che fine ha fatto la riforma della riforma delle Province: quello strano tipo di ente che non si vede ma c’è e vive e lotta accanto a noi

Nell’empito vitalistico che prende di sovente i governi dalla seconda Repubblica in poi, il ministro del governo Renzi, Del Rio, firmò nel lontano 2014 una legge “interinale” che non avrebbe dovuto superare un biennio per dar luogo all’agognato smantellamento tombale delle Province. Tale evento si sarebbe celebrato di lì a poco con l’approvazione della “grande riforma costituzionale”.
Erano tempi grami per i bilanci dello Stato, stressati dal debito, da una spesa pubblica incontenibile, dallo spread minaccioso come un’arma letale germanica della seconda guerra mondiale. Bisognava tagliare. Non potendo la legge ordinaria raggiungere lo scopo della soppressione dell’ente che appariva come il più debole nella robusta trama del potere politico disegnata dalla Costituzione, Del Rio procedette attraverso la via dello svuotamento, cominciando dall’abolizione del suffragio universale per garantire la rappresentanza nelle assemblee e nella governance delle Province.
Una piccola sospensione di democrazia, tanto, si disse, passa la legge costituzionale tra una manciata di settimane e il popolo ci renderà grazie per questo gesto lungimirante. Da allora, pertanto, la gente non andò più a votare per eleggere i propri rappresentanti e la posizione dei Presidenti e dei membri dei consigli provinciali diventò una scelta dovuta ad una elezione di secondo grado: in sostanza se la votava non il popolo ma la politica, tutti i consiglieri comunali della originaria area provinciale. Accadde che le magnifiche sorti e progressive promesse dalla riforma costituzionale di Renzi non piacquero alla maggioranza degli italiani che la bocciarono con il referendum del 2016. Cadde il Governo. Cadde Renzi. Le Province mutilate e ridotte a bonsai quanto a platea popolare, restarono però in piedi e nella postura ritta e beffarda da allora ci guardano per ricordare l’aspirazione all’eternità del “provvisorio italiano”.
È trascorso più di un decennio, tempo in cui gli italiani sono passati davanti alle notevoli architetture che spesso nelle nostre città ospitano le amministrazioni provinciali dapprima domandandosi che strano ircocervo quelle potevano essere -abolite ma non abolite- poi sempre più dimentichi della loro funzione e convinti che, se non si è avvertita nessuna crisi abbandonica, forse tutto questa importanza nella vita di ogni giorno non è detto che l’avessero. Infine circonfusi dalla nebbiolina dell’oblio si è passati a “Province che cosa?”.
In verità così inutili le Province sulla carta non appaiono: ad esse sono devolute responsabilità- e relative risorse- in materia di formazione professionale, di istituti scolastici e della loro manutenzione, di urbanistica, trasporti e viabilità, di centri per l’impiego, di competenze sul turismo, di servizi sociali, e poi di pari opportunità, di territorio e ambiente, di programmazione generale eccetera. Mica male per un ente fantasmatico. Di più: rispetto ad altri Enti Locali come le Regioni, trasmutate dal ruolo di strumenti per rendere più efficiente il decentramento secondo il disegno dai costituenti, a contenitori onnivori di competenze e di risorse, le Province sembrano manifestare, per conformazione geografica e per vocazione culturale, sociologica, antropologica ed anche economica, un’aderenza più vicina alla storia delle comunità locali italiane, un giusto ponte tra Comuni e Stato centrale. Un ponte, peraltro, attivo dal 1859, prima ancora dell’Italia unita, con il Regio Decreto 3702 del Ministro del Regno di Sardegna Rattazzi, che ne istituiva le prime 59.
La dimenticanza della politica che seguì la riforma del 2014, sembrò finalmente essere interrotta dalla sentenza n.240/2021 della Consulta e poi dai moniti del Presidente Mattarella che metteva in guardia dall’immobilismo del legislatore, ricordando che il perdurare del vuoto normativo ricadeva negativamente sui cittadini che pagavano “il prezzo di servizi inadeguati”. Così, finalmente, la nuova legislatura che ha portato al governo Meloni, poté registrare un certo fervore riformista, diretto sostanzialmente a cancellare la legge Del Rio e a ripristinare la situazione quo ante.
Ci fu anche un certo attivismo parlamentare nella Commissione affari Costituzionali del Senato, con dibattiti e perfino la produzione di un testo unificato che faceva sintesi di nove disegni di legge provenienti da vari gruppi parlamentari. Ma tutto questo fermento bipartisan si è fermato nel mese di giugno del 2023. All’epoca si commentò dicendo che si voleva dare priorità all’autonomia differenziata; altri dietrologi ne lessero una strategia direttamente ispirata dalla premier, chissà perché, poi. Fatto sta che il sette aprile si entrerà nell’undicesimo anno dalla ibernazione delle Province, quello strano tipo di ente che non si vede ma c’è e vive e lotta accanto a noi con la sua pattuglia di amministratori che noi non abbiamo potuto eleggere.
© Riproduzione riservata