Nel corso delle sue dichiarazioni programmatiche in parlamento il primo ministro Meloni ha ripreso con forza il tema del “presidenzialismo” come uno degli obiettivi da realizzare da parte del suo governo. Il riferimento era però abbastanza elastico ed è parso di capire che con quel termine ella non si riferiva necessariamente al presidente della Repubblica, poiché presidente è anche il capo di governo (oggi Giorgia Meloni): presidente del Consiglio dei ministri.

Per quello che si può capire l’esigenza avanzata dal presidente Meloni è quella, a nostro avviso sensata, del consolidamento dei poteri del capo dell’esecutivo. Ora questi è il primo ministro nei sistemi parlamentari (come il Regno Unito, la Germania, il Giappone o l’Italia, in base alla Costituzione vigente) oppure il capo dello Stato, cioè il presidente eletto dai cittadini, come nella costituzione americana o in Brasile o in Corea del Sud – sistemi presidenziali in senso stretto. Va sottolineato che non è di per sé l’elezione diretta da parte dei cittadini del capo dello Stato che fa di un regime costituzionale ciò che chiamiamo presidenzialismo, ma appunto il fatto che il capo dello Stato eletto dai cittadini eserciti i poteri costituzionali di “capo dell’esecutivo”. E infatti diversi sistemi parlamentari (come l’Austria, l’Islanda ed altri) conoscono un capo dello Stato eletto direttamente, ma che non ha la funzione di capo dell’esecutivo, la quale è esercitata dal primo ministro scelto dalla maggioranza parlamentare eletta dai cittadini.

Due differenze fondamentali caratterizzano questi due sistemi: da un lato il fatto che in quelli parlamentari il capo del governo è responsabile dinanzi al parlamento, che può costringerlo (eventualmente) con un voto di sfiducia a dimettersi, mentre il capo dell’esecutivo di un regime presidenziale (il presidente eletto dai cittadini) ha un mandato fisso stabilito dalla costituzione e non può essere rimosso in base a una decisione politica della maggioranza. D’altra parte, nei regimi presidenziali, il capo dell’esecutivo essendo eletto è espressione evidente di una parte politica – quella che vince la competizione elettorale (Trump o Biden) e, come il capo di un governo parlamentare, è inevitabilmente un attore politico espressione di una parte del corpo elettorale. Nei sistemi parlamentari il capo dello stato eletto dal parlamento è una figura di garanzia e può molto più facilmente svolgere un ruolo importante di mediatore super partes e di guardiano della Costituzione, come è scritto nella nostra carta costituzionale.

La dottrina costituzionale comparata parla ormai del nostro sistema in particolare come di un “parlamentarismo con correttivo presidenziale”, come abbiamo visto a più riprese nel corso della vita politica italiana dagli ultimi anni quando il presidente della Repubblica è intervenuto attivamente nella soluzione di crisi parlamentari (ma anche in Germania, come nel caso della formazione faticosa nel 2018 del quarto governo Merkel da parte del presidente tedesco Steimeier). Ciò che caratterizza il sistema presidenziale è la stabilità del mandato del capo del governo, che però non è un dittatore, poiché le leggi sono votate dalla maggioranza del parlamento. Se dunque il presidente eletto dal popolo non controlla la maggioranza parlamentare il suo potere è in larga misura ridotto (fino a poter essere paralizzato in caso di polarizzazione dei partiti), come è accaduto più volte negli Stati Uniti e come potrà accadere il quel paese dopo le prossime elezioni di metà mandato.

Non esistono regole assolute nelle democrazie liberali per garantire la stabilità e la governabilità dell’esecutivo, che si tratti del parlamentarismo (si pensi a quanto è accaduto di recente nel Regno Unito) o del presidenzialismo. Si crede a torto, da parte di alcuni, che si possa facilmente sfuggire a questa sempre possibile instabilità grazie ad un sistema che ha preso lo strano nome di semi-presidenzialismo. Con questo termine si fa riferimento alla costituzione della 5a Repubblica francese, dopo la modifica della stessa voluta da De Gaulle nel 1962, che introdusse nel sistema parlamentare del 1958 l’elezione diretta del presidente della repubblica, mantenendo peraltro il presidente del Consiglio responsabile dinanzi alla sua maggioranza parlamentare.

Anche in questo caso, come è accaduto nel passato e accade ora dopo la rielezione di Emmanuel Macron alla presidenza, è possibile che il presidente non abbia una maggioranza nell’Assemblea nazionale e, nonostante la stabilità del suo mandato, possa avere difficoltà a governare il paese se l’assemblea rappresentativa non convalida a maggioranza il suo indirizzo politico. Il fatto che non esista un regime costituzionale perfetto non è affatto una buona ragione per non cercare di emendare i difetti del sistema esistente in Italia. E non vi è dubbio che, senza dover cambiare le fondamenta della forma di governo, c’è sicuramente bisogno innanzitutto di rafforzare i poteri e le competenze del “presidente” del Consiglio dei ministri – è anche questo il presidenzialismo a cui ha fatto accenno Meloni nel suo discorso di investitura. Rafforzarlo dandogli, come accade per esempio per il cancelliere tedesco, il potere esplicito di scegliere i ministri e di sostituirli.

La stabilità e l’autorità del primo ministro può essere incrementata rendendo inoltre impossibile la mozione di sfiducia in assenza di un una maggioranza parlamentare alternativa capace di esprimere un nuovo premier. Inoltre, attribuendo al primo ministro il potere di chiedere al presidente della Repubblica di sciogliere il parlamento, in caso di mancata fiducia (come nell’art. 68 della carta costituzionale tedesca). Molti e gravi limiti del nostro sistema parlamentare riguardano i regolamenti delle assemblee ed il loro ridondante bicameralismo fotocopia, la pratica della presentazione di innumerevoli emendamenti tendenti puramente e semplicemente a paralizzare l’attività legislativa, il numero esuberante di leggi e leggine. E si potrebbe continuare.

È dunque perfettamente ragionevole e niente affatto autoritario voler realizzare qualcosa di simile a quanto fece il comitato di revisione costituzionale francese nel 1958, che senza introdurre il sistema presidenziale produsse un notevole e meritorio sforzo di razionalizzazione del parlamentarismo della 4a Repubblica. La tesi dell’elezione diretta del “presidente” del Consiglio può forse servire a rendere più stabile il suo mandato ma cancella del tutto uno dei caratteri essenziali del parlamentarismo, la possibilità del parlamento di votare la sfiducia nei confronti del primo ministro – il che trasformerebbe il sistema in un bizzarro cangatto (avrebbe detto Sartori) a due teste, dove accanto al primo ministro presidenziale (perché inamovibile come il capo dello Stato, salvo suicidio del parlamento) resterebbe un presidente della Repubblica scelto dai parlamentari e dai poteri oscuri.

La vecchia tesi di Serio Galeotti (che poi è stata utilizzata in qualche modo per i sistemi di governo dei comuni – e di alcune regioni), tesi riassunta dalla formula “simul stabunt simul cadent” (in caso di sfiducia del primo ministro il parlamento si auto-dissolve), innanzitutto non richiede di per sé l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, e in secondo luogo annienta come abbiamo detto uno dei tratti fondamentali dal parlamentarismo: la possibilità della maggioranza parlamentare di sostituire il primo ministro. La questione del consolidamento dei poteri del presidente del Consiglio dei ministri è certamente un tema che il parlamento dovrà affrontare nel corso di questa legislatura ed è utile che lo faccia con scienza e coscienza, al di là degli interessi di parte e di vecchi pregiudizi ideologici.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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