Berlusconi ha detto una cosa scontata. Se muta la forma di governo, il vecchio Capo dello Stato deve lasciare il Quirinale. Il problema non è il cambio della guardia dopo la grande riforma. Grave è proprio una campagna elettorale che, espropriando la competenza delle rappresentanze ad emendare la Carta, ruota attorno alla polarità, non tecnica ma storico-valoriale, presidenzialismo-parlamentarismo.

In luogo delle tradizionali elezioni di mantenimento, le quali rientrano nella fisiologia di un sistema politico legittimato che si riproduce con differenze programmatiche e non con delle minacce di discontinuità istituzionali, si profilano delle anomale consultazioni costituenti, che sfidano i confini dell’ordinamento costituzionale vigente. Il voto, in tal senso, evoca la produzione di una crisi di legittimazione della Repubblica. Con le procedure normali di una elezione del Parlamento ordinario si investe, in realtà, un organo speciale che in dote ha un plusvalore politico, il potere costituente. Se espugnata dai sovranisti, la Repubblica dovrebbe rinunciare ai suoi princìpi e poteri tradizionali per assorbire una nuova mappa delle autorità di governo.

In modo “democratico” (niente a che fare con la marcia su Roma del fascismo storico) la destra cent’anni dopo intende rompere gli equilibri e i fondamenti di una Repubblica che i nostalgici della fiamma considerano da sempre consumata. Come allora il regime del “capo del governo” venne imposto per vie “normali” e lo Statuto fu conservato almeno nella lettera, così oggi il macigno del meccanismo presidenziale, che non è un semplice emendamento incrementale, viene immesso nell’ordinamento con una solo apparente sopravvivenza della Carta del ’48.

È chiaro che la destra imprime su molteplici aspetti una cesura qualitativa: il regime presidenziale infrange i poteri di una Repubblica in origine disegnata secondo lo stampino parlamentare; l’autonomia differenziata rompe di fatto il principio di unità della Repubblica, con una frantumazione normativa che esalta l’incontenibile volontà di potenza dei territori più forti; l’introduzione nell’art. 11 Cost. (facente parte dei “Principi fondamentali” ) del riferimento alla “compatibilità con i principi di sovranità” dell’Italia (per cui “le norme dei Trattati e degli altri atti dell’Unione europea” sono applicabili solo in quanto “compatibili” con questi ultimi) e la rimozione da altre disposizioni della Carta del richiamo ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” e dagli “obblighi internazionali” segnano il superamento del principio del primato del diritto europeo, avvicinando l’Italia alle recenti svolte giurisprudenziali polacche, e certificano una torsione ideologico-costituzionale, con il passaggio dal tradizionale principio della sovranità popolare alla costituzionalizzazione del nuovo principio sovranista (primato, in un’ottica sciovinista e isolazionista, dell’ordinamento interno su quello comunitario e internazionale); infine una legislazione introduttiva della tassa piatta scompagina il nucleo sociale-egualitario della Repubblica, cioè la tassazione progressiva.

Lo stress nelle istituzioni e nei principi è così accentuato che viene spezzata la continuità della Repubblica. La grande stampa, che in questi anni ha più incentivato l’antipolitica, con Ezio Mauro e Paolo Mieli, apre al presidenzialismo. L’ex direttore di Repubblica esige in cambio solo una condanna esplicita, da parte della destra trionfante, dell’assassinio di Matteotti. Non sono di certo le ombre nere dei crimini del passato a minacciare il cammino del radicalismo di oggi, ma le spinte verso una eversione “democratica” della legalità repubblicana nata con il “complesso del tiranno”. Il parlamentarismo, in tal senso, rappresenta un valore storico fondativo, una scelta originaria qualificante. Nel conformismo che si sta già costruendo attorno alla marcetta trionfante di Giorgia, elementari postulati costituzionali e storiografici cadono con troppa disinvoltura. Uno storico del Corriere va in televisione scandendo più volte che quello che piace ai sovranisti d’Italia non sarà mai come il presidenzialismo alla Orban. Per forza, il regime ungherese è sì quella che in gergo viene chiamata una “democratura”, ma non prevede come forma di governo il presidenzialismo.

Su un terreno più generale, la questione del presidenzialismo presenta tre profili: il primo storico, il secondo valoriale, il terzo rinviante a questioni di efficienza. Sul piano storico, lo schema di Bruce Ackerman (Revolutionary Constitutions: Charismatic Leadership and the Rule of Law, Harvard, 2019) sonda i “diversi percorsi attraverso i quali le costituzioni hanno conquistato legittimità” (e cioè costituzionalismo rivoluzionario, istituzionalista ed elitario) e riconduce la legittimazione di un ordine politico agli inizi, alle origini che seguono specifici indirizzi storico-ideali. Nel caso italiano, la costituzionalizzazione avviene senza un movimento carismatico, attraverso una “rivoluzione costituzionale” diretta dai partiti e dall’élite politiche. Ackerman esalta il ruolo costituente della svolta di Salerno con la quale Togliatti sterilizza la guerra civile. Inoltre paragona De Gasperi al comunista pragmatico Nelson Mandela e si chiede se sia il caso di parlare di un “De Gasperi as Revolutionary”. Il leader Dc con comunisti e socialisti costruisce “la nuova identità costituzionale italiana” così densa di obiettivi programmatici socialdemocratici.

Nel disegnare la nuova Carta (una “revolution in the constitution”), i soggetti costituenti fondano la legittimazione attraverso un regime parlamentare quale equilibrio pluralistico dei poteri quindi più efficace risposta alla paura del tiranno. Rimuovere oggi le regole e gli incastri che suggerivano una forma di governo plasmata dalla ripulsa dell’uomo forte (è il nucleo dell’antifascismo repubblicano) non è una semplice iniezione di efficienza, ma una alterazione dell’inizio, quindi una mutazione della base legittimante dell’ordine politico. Sul terreno valoriale, invece, valgono ancora i giudizi formulati da Hans Kelsen. Il presidenzialismo non è descritto dal giurista praghese come un meccanismo di potere di per sé estraneo alla democrazia. Egli lo interpreta però come un momento decisionale dotato di un requisito assiologico minimo, se paragonato al superiore grado di legittimazione che accompagna i sistemi parlamentari.

La collegialità delle funzioni di governo, il controllo critico dell’agenda, la trasparenza del potere pubblico, la responsabilità politica della maggioranza sono condizioni essenziali che il regime parlamentare garantisce meglio della formula presidenziale. La componente autocratica di un regime politico va considerata come una porzione ineliminabile in ogni struttura del potere. E però preferibile è quella organizzazione del potere pubblico che minimizza la dimensione della leadership e, con essa, il ricorso a cariche monocratiche con mansioni di governo. “La monarchia costituzionale e la repubblica presidenziale sono democrazie nelle quali l’elemento autocratico è relativamente forte. Nella repubblica con governo di gabinetto e nella repubblica con governo collegiale, è comparativamente più forte l’elemento democratico” (Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas, p. 306).

Venendo al tema dell’efficienza, la preferenza per il governo parlamentare è connessa anche alla migliore resa, sul piano del rendimento istituzionale, della investitura di un organo collegiale di esecuzione e legislazione che è ritenuto superiore alla espressione della figura monocratica come centro di comando. Kelsen ritiene che la democrazia convive con la leadership, non la esalta come valore fondativo del rapporto politico. Secondo le ricerche di Juan Linz (Parties in Contemporary Democracies), il presidenzialismo, con la contrazione della rappresentanza e delle mediazioni di partito, accentua la maschera populista come ritrovato della personalizzazione della leadership. “Il presidenzialismo, per la sua stessa natura, può generare un proprio sentimento antipartitico. Riduce il ruolo dei partiti nella produzione e nel sostegno dei governi.  I partiti nei sistemi presidenziali hanno meno probabilità di articolare i programmi governativi e definire ampie politiche pubbliche. Queste funzioni sono più eseguite dai presidenti” (p. 292).

Esiste per questo, nella verticalizzazione del potere personale, una induzione populista alle politiche di un presidente che “con appelli antipartito, scavalca i controlli e i condizionamenti della camera” (p. 303). L’acuta crisi istituzionale che investe la democrazia americana dopo più di due secoli di costituzionalismo rimarca i pericoli di presidenti sleali che, nel momento del congedo, accarezzano la piazza che dà l’assalto al Palazzo, nel misconoscimento dell’esito della competizione secondo i canoni della legalità elettorale. Riflettendo sui pericoli della rottura di un ordine politico, G. Gerstle (The Rise and Fall of the Neoliberal Order, Oxford, 2022) rammenta: “La sessione del 6 gennaio era puramente procedurale-cerimoniale. Ma Trump aveva convinto i suoi sostenitori, e anche un gruppo consistente di senatori e deputati repubblicani, che il Congresso poteva ancora intervenire per alterare i risultati delle elezioni e conferirgli il secondo mandato che riteneva di aver conquistato. Decine di migliaia di sostenitori di Trump si sono recati a Washington; diverse migliaia, su esortazione dello stesso Trump, hanno preso d’assalto il Campidoglio. Trump sembrava ipnotizzato dalle scene di bolgia e violenza di Capitol Hill che apparivano sugli schermi televisivi che stava guardando dalla sicurezza della Casa Bianca” (p. 288).

Le grandi riforme costituzionali non operano nel vuoto di storicità. La proposta di Meloni ignora l’attuale crisi di legittimazione dei regimi presidenziali all’americana e semipresidenziali alla francese, e cavalca l’onda delle (più recenti) opzioni presidenziali o semipresidenziali che hanno riguardato i sistemi politici della Russia, dell’Ucraina e, da ultimo, della Turchia. Si tratta di modelli di “democrazia sovrana” che, contro la “democrazia interloquente”, invocano la decisione di un potere monocratico. Ma un inquietante volto illiberale domina questa nuova versione di costituzione personale-carismatica. È in nome di più elevati principi di democrazia costituzionale che vanno contrastate le derive delle imperversanti “democrazie illiberali”.