Alcuni anni fa fui commissario esterno in un liceo. Quando un ragazzo si sedette e cominciò a parlare notai in fondo alla sala gli occhi bellissimi e commossi di una donna seminascosta. Non mi ci volle molto per capire che era la mamma dello studente a cui avevamo spostato la data del colloquio per una seduta di chemio, l’ennesima, che lo attendeva l’indomani. Si era messa in disparte, con basso profilo. Era evidente che non le interessava farsi notare dalla commissione, né da suo figlio, e sicuramente non le interessava neppure ascoltare il contenuto di ciò che si stava dicendo nel colloquio. Le bastava il solo esserci, vederlo lì. Evidentemente quell’immagine di lui seduto su quella sedia, di fronte alla commissione, non era apparsa scontata nei mesi precedenti.

Io ero impigrito e un po’ distratto, ma quello sguardo ebbe il potere di richiamarmi all’impegno: dovevo ascoltare quel ragazzo, attivarmi per lui, dare valore al suo colloquio. Voglio chiarire che non furono la malattia o un mio personale sentimento di commiserazione a “spostarmi”, fu proprio il volto di lei. Quella madre mi spalancava un’evidenza: l’esserci di quel ragazzo era un avvenimento, un istante importante, e sentii – nello stesso momento – che anche il mio esserci, di fronte a lui, lo era. Il mio istante pigro si riempì di senso, dialogai con una passione e un’attenzione nuove, anche i successivi colloqui se ne nutrirono. Torno a quel ricordo mentre leggo della recente polemica sui genitori agli esami di Stato, sulla loro presenza, utile o inutile, sui fiori portati dalle mamme, su una certa loro iperattiva invadenza. C’è chi lo ritiene giusto, chi sbagliato. Quasi nessuno dice la cosa più sensata, e cioè che semplicemente dipende dai casi. Ovvero, come scrive Don Vincenzo Lopano – sacerdote pugliese molto amato dai giovani – dipende dai criteri, dal perché.

Da insegnante ho visto più volte questo spettacolo, con il privilegio di avere il pubblico di fronte a me e poter cogliere la varietà di questa fauna. Ho visto genitori venuti lì apposta per scrutare, influenzare la commissione con la sola presenza. Ho visto quelli venuti lì per alimentare il proprio orgoglio attraverso la performance dei propri figli, e alcuni li ho visti poi andare via delusi e imbarazzati perché non era andata come ci si aspettava (che ferita terribile, quel loro imbarazzo, per i ragazzi!). Ho visto anche il comprensibile, ma sempre triste, orgoglio della rivalsa, di chi vede nelle riuscite dei figli il compimento di ciò che è mancato a sé. E ho osservato i genitori separati, sia quelli che erano lì per occupare uno spazio in contrapposizione con l’altro coniuge sia quelli che erano lì – talvolta in modo apparentemente ridicolo ma per me dignitoso – a mendicare una possibilità. Ho visto abbracci finali davvero grandi, dove la performance valeva zero, ma la sola presenza dei genitori era per i ragazzi semplicemente un regalo inatteso che credevano di non meritare.

C’è così tanta vita possibile in ogni gesto, per questo non mi piacciono le posizioni assertive, tanto più sul tema dell’educazione. Certe affermazioni impetuose di Paolo Crepet (da cui, sia chiaro, c’è tanto da imparare) me lo fanno apparire come una sorta di generale Vannacci della pedagogia: dice quello su cui è facile essere d’accordo quando non si soffre in prima persona. E invece sono così tanti i mondi possibili. Me lo ricorda un libro di rara freschezza di Andrea Di Consoli, “Dimenticami dopodomani” (Rubbettino Editore), che esalta – attraverso piccoli quadretti di realtà – questo atteggiamento “rispettoso” per l’abisso che sempre è nell’altro uomo, questa scoperta dell’altro che sempre ci allarga. Io, per esempio, sono ancora fermo a quella madre. Andare a scuola, per me, è portare quei suoi occhi su tutti gli studenti. Può apparire romantico e idealizzato, e infatti non ci riesco per niente, ma almeno adesso ho l’ideale, la meta, è più alta l’asticella.

Pino Suriano

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