L'editoriale
Meloni coglie il vento di Bruxelles, ma la politica italiana è una Via crucis. Bandecchi, Delmastro e le camicie nere: così la stella può rivelarsi meteora
Giorgia come Marilyn che sorride a Elon nella Ziegfeld Ballroom della Grande Mela. Giorgia come Evita che dalla Casa Rosada stringe in un abbraccio la folla della “nación hermana”. Giorgia come novella Angela Merkel che tiene assieme i pezzi di un’Europa inguaribilmente divisa. Altro che Perugia. Nei giorni della sconfitta nella piccola Umbria, la premier italiana sembra diventata una star internazionale. Ottiene quel che voleva al tavolo di Bruxelles, portando Raffaele Fitto alla vicepresidenza della Commissione e confermandosi trait d’union fra l’Europa del centrosinistra e l’Europa sovranista. Si prepara a giocare un ruolo analogo – si illude, dicono gli oppositori – nei rapporti presumibilmente difficili che il Vecchio Continente dovrà intrattenere con (l’amico) Trump. Si colloca senza riserve dalla parte di Zelensky nella polarizzazione ostile che si è aperta tra l’Occidente liberale e l’Oriente autocratico. Sembra dire la sua anche sulle note dolenti delle migrazioni, con il Piano Mattei e perfino con l’opinabile vicenda del “modello Albania”.
Meloni coglie il vento
Giorgia Meloni conferma di avere capacità di leadership, abilità tattiche, visione. Una visione che ruota attorno al sovranismo, all’identità nazionale, alla revanche antiprogressista, alla guerra contro la cultura woke. A Buenos Aires, Meloni era acclamata come il volto europeo di una Santa Alleanza comprendente Trump e Netanyahu e naturalmente Milei. Slogan fin troppo facili, come dimostrano i controversi rapporti commerciali tra Vecchio Continente e Mercosur. E tuttavia quei successi richiedono una riflessione meno semplificata di quanto il mainstream mediatico tenda ad accreditare.
La premier italiana sembra cogliere il vento che tira nel mondo multipolare meglio di quanto non facciano le sinistre occidentali. Sembra contrapporre soluzioni e alleanze – poi vedremo dove andranno a parare – alla distopia disegnata dai progressisti, agli allarmi magari non infondati delle sinistre, ma poveri di prospettive, spesso ideologici. Giorni fa, sul Corriere della Sera, Francesco Giavazzi metteva in guardia dalla mitologia catastrofista del protezionismo trumpiano. Siamo sicuri, diceva Giavazzi, che il problema sia la stretta daziaria (se davvero ci sarà)? O non invece la crescita lenta della competitività europea, la riluttanza a investire nella Difesa, le dimensioni inadeguate delle aziende? Ragionamenti che mettono quantomeno in dubbio certe letture semplificate della realtà, la tentazione di ridurla al “fascista” della Casa Bianca, al Grande Fratello di SpaceX, al presidente argentino con la sega. O a “questa destra orribile” (copyright Matteo Orfini) che governa l’Italia. Forse le cose sono più complicate e dovrebbe far riflettere i nostri leader – le nostre sinistre – che sia proprio Giorgia Meloni la leader capace di mettere assieme i pezzi sparsi di un conservatorismo europeo e atlantico al tempo stesso conservatore e innovativo, protezionista e liberista, sovranista e antiputiniano. Fare della premier italiana l’ultimo miglio di un percorso che nasce nel Ventennio sembra a dir poco inconcludente.
La Via crucis italiana. Da Delmastro a Bandecchi Giorgia deve fare i conti con la politica di casa sua
E tuttavia un’obiezione forte ai trionfi meloniani rimane, ed è il salto di scala dalla dimensione internazionale a quella nazionale. Le piaccia o meno, Giorgia Meloni deve poi fare i conti con la politica di casa sua. Con il teatrino della politica, direbbe il Cavaliere. Con i Delmastro, i La Russa, le Santanchè. Con i Bandecchi e i Vannacci. Con le camicie nere di CasaPound. Con i colpi bassi di Salvini. Con i moderati che non si fidano di certi “personaggetti” dell’esecutivo e finiscono per astenersi. Ma soprattutto con un sistema Italia che dagli anni Settanta non cresce più e dagli anni Novanta declina vistosamente. È qui che finisce la gloria di Meloni e comincia una pericolosa Via crucis, fatta di politiche di compromesso, di timidezze inguaribili, di mediazioni demagogiche, della cronica incapacità di fare le riforme. È qui che la leadership può rivelarsi meteora. Capitò ad altri innovatori, audaci quanto sfortunati, innovatori sconfitti, una lista malinconica che va da De Gasperi a Renzi.
Non basterà a Meloni raccogliere allori a Bruxelles o a Washington. Dovrà sconfiggere la politica politicante, se vuole sopravvivere. Ma qui i bookmakers appaiono scettici.
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