L'intervista
Milano, Bologna e Roma: affitti improponibili e il paradosso delle case chiuse. Marcatili: “Bisogna favorire la rigenerazione urbana”
Sempre più la combinazione salari e costi abitativi risulta problematica: i redditi da lavoro, storicamente stagnanti in Italia, hanno subito i colpi dell’inflazione e i rinnovi salariali hanno recuperato solo in parte un potere d’acquisto percepito dal Paese ancor oggi in corso di erosione. «Casa e lavoro non si conciliano più automaticamente, la congiuntura attuale mostra l’urgenza di un protagonismo pubblico che attivi forze sociali», spiega Marco Marcatili, direttore sviluppo di Nomisma, nel condividere le principali risultanze emerse nella presentazione realizzata per Legacoop Abitanti a Roma.
Marcatili, l’analisi parte dal confronto dei trend dell’abitare in tre città particolari Milano, Bologna e Roma. Quali le evidenze?
«Abbiamo scelto città i cui mercati fossero in forte trasformazione. In tutti e tre i casi il disallineamento tra domanda e offerta di casa genera una pressione evidente sui canoni di locazione. Vediamo diminuire le nuove costruzioni nell’ultimo decennio (dal -25% a Milano al -58% a Bologna) mentre la nuova domanda d’affitto tende verso l’alto. In questo contesto, assistiamo ad un paradosso che non possiamo ignorare».
Quale?
«Il paradosso delle abitazioni non utilizzate. Una città come Milano, così attrattiva, si permette il lusso di oltre 60mila abitazioni private non in uso, il 9% del totale, cui si devono aggiungere quasi 12mila case ERP ad oggi sfide. Bologna è più piccola, ha numeri più contenuti, ma il fenomeno si ripete quasi invariato nelle proporzioni. E Roma non è da meno, nella sua estensione di metropoli, con oltre 100mila alloggi privati che risultano oggi sottratti al mercato, parliamo dell’8% del patrimonio immobiliare residenziale. Si tratterà forse di stime per eccesso, le case realmente recuperabili al mercato possono arrivare a numeri minori, ma la portata del fenomeno rimane estesa. Se uniamo la quota di abitazioni esistenti non in uso al calo delle nuove abitazioni in costruzione…».
Partiamo dai privati. Come si spiega la reticenza a mettere l’immobile sul mercato e come “sbloccare” la situazione?
«Non c’è un’unica ragione per la scelta delle famiglie multiproprietarie di non mettere i propri immobili sul mercato. Occorre quindi pensare a più soluzioni: dare adeguate garanzie chi teme l’incuria e la morosità degli inquilini, sostenere chi deve programmare costose ristrutturazioni dell’immobile, sollecitare, con un regime fiscale disincentivante, chi si è semplicemente “distratto”, per via di una condizione di agio economico».

Che dire dell’emergere del fenomeno degli affitti brevi?
«Un fenomeno da gestire con cura, in una logica di legalità e di prossimità ai territori, con attenzione soprattutto alla cosiddetta zonizzazione. Ha poco senso mettere generici limiti quantitativi, occorre piuttosto considerare ogni città zona per zona soppesando le specificità: l’intensità della destinazione turistica, il rapporto con le pressioni abitative. Faccio presente però che la quota di immobili impiegata con gli affitti brevi è una frazione ben più ridotta della quota degli immobili oggi privi di ogni utilizzo».
Arriviamo alle nuove abitazioni. Costruire nuove case significa consumo di suolo.
«Non per forza, si possono favorire circuiti di rigenerazione urbana, più sostenibili. Solo in una città come Bologna abbiamo stimato potrebbero realizzarsi 8-9mila nuove abitazioni rigenerando l’esistente».
Perché non si sta già facendo?
«Serve un ruolo di maggior protagonismo del pubblico. Oggi ad imbrigliare l’investimento dei privati sono i valori di carico con i quali le aree rigenerabili sono iscritte nei bilanci delle società pubbliche proprietarie. Occorre tagliare quei valori fino a ricondurli alla realtà o, meglio ancora, assegnare agli investitori tali aree, sostenendone i costi di bonifica laddove necessario, vincolando però gli investitori a rispettare parametri sociali al momento dell’immissione sul mercato delle abitazioni. Questa scelta permetterebbe di liberare le competenze e gli investimenti del privato sociale – cooperazione in primis – aumentando l’offerta e frenando l’aumento dei prezzi».
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