Parlare di guerra, di armi, di alleanze con chi di queste cose ha conoscenza diretta e approfondita: il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, e prim’ancora dell’Aeronautica militare, consigliere scientifico dello Iai (Istituto affari internazionali). Camporini è tra i fondatori di Azione di cui è responsabile difesa e sicurezza.

Generale Camporini, la Finlandia ha avanzato richiesta formale di ingresso nella Nato. La Svezia lo farà domani (oggi per chi legge). Una Nato a forte trazione americana o angloamericana. Una super Nato e una mini Europa?
Non direi proprio. Sono convinto che vi sia una piena compatibilità fra una Nato più forte in una Europa più forte. Ritengo che una Nato in cui ci sia una identità europea, supportata anche da capacità militari autonome all’interno di un concetto sano di autonomia strategica, sia qualcosa di altamente desiderabile.

Perché?
Lei fa riferimento, giustamente, a questa trazione anglosassone/americana. Ora, è chiaro che essendo un’alleanza in cui c’è un “grande fratello” e tanti cespugli, è chiaro che il “grande fratello” americano domina. Ma se i cespugli si mettono insieme e diventano un qualche cosa di serio, e si crea questo famoso, da tempo evocato, pilastro europeo dell’Alleanza Atlantica, a questo punto gli Stati Uniti si troverebbero ad avere, nello stesso campo, un interlocutore di pari dignità. E avendo un interlocutore di questo genere, diventa naturale il confronto quotidiano per l’elaborazione di linee politiche condivise. Ma se lei oggi fosse Biden, per prendere una decisione se la sentirebbe di telefonare, per dire, al presidente della Slovenia? O anche dell’Italia o della Germania. La Germania dal punto di vista militare conta poco o nulla, è veramente un ectoplasma, giusto i francesi hanno una qualche capacità ma stiamo sempre parlando di una disparità spaventosa. Mentre invece se si riuscisse a creare questa benedetta identità europea, questo nucleo di “apripista”, i vecchi fondatori dell’Unione Europea o parte di essi, che riescano a dar vita a istituzioni comuni della politica estera e di sicurezza, a questo punto il dialogo diventa un dialogo se non fra pari tra quasi pari.

Per restare sul tema. Alleati alla pari o quasi, significa anche condividere strategie e visioni. L’obiettivo vero degli Stati Uniti è quello di liberare l’Ucraina o di liberarsi di Putin? E se è buona la seconda, ciò coincide o confligge con gli interessi dell’Europa?
Partiamo da Putin. Lei pensa che oggi e per i prossimi dieci anni a venire, Putin sia per noi europei un interlocutore? La mia risposta è no. Io credo fortemente in un futuro di cooperazione, di collaborazione fattiva fra i Paesi europei e la Russia. Abbiamo delle importantissime complementarietà, dal punto di vista industriale, energetico, esiste una base culturale comune…, ma non con la Russia di Putin. Occorre che cresca e si affermi una dirigenza russa che si liberi di queste manie di grandezza, di queste paranoie e che capisca che la collaborazione con l’Europa è nel pieno interesse della Russia, molto di più di una qualsivoglia sudditanza nei confronti della Cina. Gli americani sono stati molto espliciti, forse troppo, a parlare del futuro di Putin. Ma che Putin sia ormai indigesto a tutti mi sembra una evidenza.

Sia nel suo incontro alla Casa Bianca che al suo ritorno in Italia, Draghi ha posto con forza la necessità e l’urgenza che il presidente Usa riprenda a parlare con il suo omologo russo. In fondo la pace si fa col nemico e ad oggi il capo dei nemici si chiama Vladimir Vladimirovich Putin. Come la mettiamo?
Io non vedo contraddizioni. Oggi la situazione è che a Mosca comanda Putin. E dal momento che a Mosca comanda Putin, bisogna sedersi attorno a un tavolo con lui. Il che non significa che lui sia l’interlocutore con cui vogliamo avere a che fare nel prossimo futuro. Perché nel prossimo futuro se vogliamo avere un rapporto sano con la Russia, non lo possiamo avere con la Russia di Putin. Il risultato di questa guerra, anche se finisce stasera, se stasera smettono di sparare, è che il rapporto con la Russia è guasto e tale è destinato a restare finché c’è questo tipo di dirigenza. Putin e il “putinismo”. Io sono l’ultimo a chiedere un regime change, anche perché, come dire, al peggio non c’è mai fine. Ma se si determinasse una evoluzione nei rapporti di forza all’interno della dirigenza russa, per cui si venisse a ricreare una sorta di “politburo”, come c’era durante gli anni benedetti della Santa Unione Sovietica, fatto di persone che si confrontano vicendevolmente e possano indicare al Segretario del partito la linea da seguire, e se questo non la segue lo sconfessano, come è successo più volte nella vita dell’Urss, beh, sarebbe tutt’altro discorso. Oggi, invece, c’è un uomo solo al comando, uno “zar” piuttosto che un presidente, attorniato da un gruppo di lacchè che non fanno altro che ripetergli quanto sei bravo, quanto sei intelligente, e con un sistema di potere del genere è francamente difficile, se non impossibile, pensare a una qualche cooperazione strategica. Quello che manca oggi alla Russia è un bilanciamento dei poteri. Quello che c’è in un qualsiasi regime sano, non dico nelle democrazie. Ma questo equilibrio dei poteri in Russia oggi non esiste e ciò ha provocato questa tragedia.

A proposito di tentativi di dialogo. Lei che lettura dà della telefonata tra il Pentagono e Mosca?
Il contatto al massimo livello della difesa è fondamentale e non dovrebbe mai essere interrotto neanche nei momenti più gravi di un conflitto. Anzitutto perché consente di evitare che l’incidente non voluto possa degenerare. Questo tipo di contatto va mantenuto in qualsiasi situazione, e deve essere sviluppato anche a livelli più bassi dei rispettivi comandi militari. È necessario che vi siano dei canali, estremamente riservati come è ovvio che sia, in modo tale che i comandanti militari si possano parlare per evitare malintesi che possono avere conseguenze drammatiche. Quello che è avvenuto è un contatto chiaramente preparato da tempo, al quale si stava lavorando con grande attenzione e credo che sia una bella smentita a tutti coloro che invece insistono in una visione catastrofica delle intenzioni occidentali.

Una pace giusta può fondarsi sul ritorno allo status quo ante il 24 febbraio, giorno dell’invasione russa dell’Ucraina?
Questo va lasciato decidere agli ucraini. Sono loro che devono decidere che cosa sono disposti ad accettare per ornare ad una situazione di non belligeranza. Alcune cose però si possono e si devono puntualizzare…

Quali, generale Camporini?
Penso al discorso sulla Crimea. È un problema che devono risolvere loro, gli ucraini, dando prova di un sano realismo. La mia opinione è che la Crimea sia definitivamente persa, anche perché ormai la popolazione locale è stata totalmente assorbita dalla Russia. Detto questo, va subito aggiunto che non possiamo essere noi a imporre determinate condizioni. Possiamo dar loro dei suggerimenti. Sul Donbass, ad esempio, ho da tempo suggerito quello che era già scritto nel Minsk2 e che non è stato realizzato. Ma oggi come oggi, con gli esodi che ci sono stati, con le pulizie etniche messe in atto, lei se la sentirebbe di organizzare un referendum? Chi è che vota? Quelli che sono scappati in Polonia o in Italia, ad esempio, possono tornare? E quelli che sono stati deportati in Russia, i russi li lasciano tornare per votare? Siamo veramente in una situazione molto difficile, dove il compromesso è qualche cosa di estremamente faticoso. Io credo che Zelensky e i suoi siano nella condizione giusta per poter decidere se possono mollare qualcosa e cosa mollare. Ma una decisione del genere non può essere presa in cinque minuti. Richiederà del tempo. L’importante è che si arrivi, quanto prima, a un cessate il fuoco. E il cessate il fuoco dipende da una sola persona. Che sta al Cremlino.

In Europa, e non poteva essere altrimenti, la guerra in Ucraina ha creato una forte empatia con il popolo invaso e anche preoccupazione. Cosa che non è avvenuta in due terzi del mondo. È solo un problema di lontananza dal teatro di guerra o c’è dell’altro?
La lontananza non è solo un fatto chilometrico ma geopolitico e di percezione. Cosa gliene può fregare agli indiani di quel lembo di terra a loro sconosciuto che si chiama Ucraina, loro stanno facendo affari con gli amici russi e continuano a farli. Non sarà poetico, ma è così. Vale per New Delhi come per tante altre parti del mondo. Man mano che ci si allontana, anche fisicamente, gli interessi spiccioli prevalgano su qualsiasi considerazione anche di tipo etico, ammesso che su questi temi si possa parlare di etica.

Siamo ormai vicini ai 90 giorni dall’inizio delle ostilità. Chiedo a lei che della materia è un’autorità: si può spiegare la forza della resistenza ucraina soltanto per gli armamenti che le sono stati forniti?
Assolutamente no. Gli armamenti sono venuti dopo. La cosa importante è che qualcuno ha voluto resistere. I russi sbeffeggiano un giorno sì e l’altro pure la figura di Zelensky e della sua “cricca”. Ma Zelensky e la sua “cricca” hanno il supporto se non di 44milioni, almeno di 40milioni di ucraini. Che sono disposti a tutto pur di resistere. Questa è la grande differenza. Gli armamenti contano, non c’è dubbio. Ma se le armi le hai e non le vuoi usare…Vede, il potere è il combinato disposto tra le capacità e la volontà d’impiegarle. Tu puoi avere le migliori capacità in assoluto, i migliori armamenti, ma se non hai la volontà d’impiegarli, il tuo potere è pari a zero. Se invece hai la volontà di usarli, perché credi in quello per cui resisti e combatti, ti van bene anche i sassi e i pugnali.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.