Chi pure detestasse di tutto cuore Benjamin Netanyahu dovrebbe fare lo sforzo di mettere in fila alcuni fatti inoppugnabili, il corteo di cose vere ed evidenti che, se non fa del primo ministro israeliano una specie di Churchill con la kippah, nemmeno consente di liquidarlo al rango del criminale di guerra di cui si legge senza sosta da più di un anno in qua.

Gli errori, gli atti di disinvoltura politica e perfino gli illeciti di cui può essersi reso responsabile questo navigatissimo uomo politico non sono nulla rispetto alla vera “colpa” che, per quanto in modo non dichiarato, lo condanna senza possibilità di appello alla pubblica esecrazione: la sua colpa è di essere il capo esecutivo dello Stato ebraico. Vale a dire, nell’ordine: lo Stato che si è impiantato illegittimamente in Palestina; lo Stato che ha via via occupato la terra altrui; lo Stato che ha imposto entro i propri confini e nei territori usurpati un regime segregazionista; lo Stato che in modo prepotente e discriminatorio ha annichilito le ambizioni di libertà dei palestinesi, conculcando il loro diritto di autodeterminazione. Infine lo Stato che, non pago di aver esercitato quell’ormai quasi secolare giogo sopraffattorio nei confronti di una popolazione derelitta, ha intrapreso la via neonazista che conduce al genocidio di Gaza.

Chiunque sia dotato di un’onestà intellettuale anche solo accennata sa perfettamente che sono quelle “colpe” a condannare Netanyahu, vale a dire le colpe che – presso le platee dell’imperante pregiudizio anti-israeliano e anti-semita – avrebbero reso impresentabile chiunque, letteralmente chiunque avesse avuto in sorte di condurre il popolo in armi dello Stato ebraico a combattere contro chi vuole distruggerlo. Se la prolusione del rappresentante sudafricano al processo dell’Aja si apriva evocando i presunti 75 anni di usurpazione segregazionista; se il segretario generale dell’Onu, discutendo dei pogrom del 7 ottobre, aveva l’urgenza di spiegare che essi non venivano dal nulla; se la sua disinvolta consulente, una sedicente avvocata fotografata tra le bandiere che invitano al boicottaggio di Israele, denuncia “la matrice di sostituzione coloniale del progetto israeliano sin dal 1948”; se insomma le presunte responsabilità del primo ministro in carica diventano l’occasione di un plateale dibattito revocatorio della stessa legittimità di Israele, allora è evidente che il presunto criminale è semmai la vittima suprema e rappresentativa di un delitto incommensurabilmente più grave di tutti quelli che in ipotesi egli può aver commesso.

La guerra di Gaza e del Libano sarebbe stata combattuta in modo più o meno identico da qualunque altro capo esecutivo, e qualunque altro capo esecutivo sarebbe passato per criminale e genocida perché nessun altro capo esecutivo si sarebbe visto riconoscere il diritto che è stato negato a questo primo ministro: cioè il diritto di fare la guerra a chi ha programmato, attuato e rivendicato i massacri del Sabato Nero e ha poi promesso e minacciato di ripeterne l’esperimento ancora e ancora.

Le ragioni di critica (tante) e i motivi di accusa (altrettanti) di cui Netanyahu può legittimamente essere destinatario non dovrebbero soverchiare l’esigenza di proteggerlo da un’imputazione che, tramite lui, aggredisce in realtà la legittimità di Israele e il diritto degli israeliani all’esistenza e alla sicurezza dello Stato ebraico. Si tratta dell’idea, squisitamente antisemita e – questa sì – di stampo genocidiario, per cui la legittimità dello Stato ebraico dipenderebbe, per così dire, dalle qualità civili e morali che lo caratterizzano. L’idea, pressappoco, che gli israeliani – a cominciare dal loro primo ministro – debbano “comportarsi bene” affinché la loro legittimità nazionale sia riconosciuta. L’idea, in fondo, che la legittimità dello Stato degli ebrei dipenda dal benestare altrui, concesso su scrutinio di benemerenza morale. Ma quest’idea, se continuasse a diffondersi come purtroppo sta facendo, sarebbe semmai il disastro morale dell’Occidente.

Quanto a Bibi, chi preferisce continui pure a descriverne la vicenda come quella del criminale finalmente esposto al trionfo della giustizia internazionale. Ma sarà difficile mettere la fascetta “genocidio” sulla storia che, nel giro di 14 mesi, ha visto prima smascherare il profilo e poi tagliare le grinfie ai manovali e ai burattinai del terrorismo stragista che fino a un anno fa lavoravano impunitamente a Gaza e nel sud del Libano, a Tehran e a Damasco sotto la graziosa tutela delle Nazioni Unite sonnecchianti.