La Corte Penale Internazionale ha emesso ordini di arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, ipotizzando che i due si siano resi responsabili di crimini di guerra o contro l’umanità. In particolare, lo avrebbero fatto affamando e prendendo di mira, con le proprie azioni belliche, la popolazione civile. L’altro giorno, commentando la notizia, il procuratore della Corte, Karim Khan, ha dichiarato di aver richiesto l’emissione di quei provvedimenti “a seguito di un’indagine indipendente e sulla base di prove oggettive e verificabili”.

Gli ordini di arresto sono stati secretati dalla Corte, dunque non se ne conosce l’esatto contenuto. Ma c’è da credere che quelle prove non fossero troppo oggettive né molto verificabili se è vero, come è vero, che la lista dei presunti crimini che figurava nella richiesta di arresto del 20 maggio di quest’anno era più lunga rispetto al grosso degli addebiti citati dalla Corte nel comunicato dell’altro ieri, quando appunto dava notizia dell’emissione degli ordini di arresto. C’è da dubitare che si trattasse di prove oggettive e verificabili visto che la prova dell’uso della fame “come arma di guerra” risiedeva nell’assunto non solo non verificato, ma addirittura contraddetto, dell’esistenza di una “carestia” in corso in alcune zone di Gaza già a quell’altezza di tempo; nonché nella previsione non solo improbabile, ma platealmente smentita, di una carestia incombente su tutta Gaza. La carestia che non c’era stata prima di maggio, che non c’era a maggio e che non ci sarebbe stata dopo maggio ha continuato a esserci in carta bollata, non essendoci nella realtà, per i sei mesi decorsi dalla richiesta di arresto sino agli ordini di arresto.

E vedremo – quando sarà possibile vederli – gli ordini di arresto: vedremo se conterranno quella parola (“carestia”) presente nella richiesta di arresto ma non, guarda caso, nel resoconto che la Corte ha rilasciato nel dare la notizia dell’emissione di quegli ordini. C’è caso che la prova della carestia non fosse né oggettiva né verificabile. E non è un dettaglio, perché “carestia”, come “genocidio”, significa una cosa molto precisa. Tanto più una carestia al livello catastrofico di cui si straparlava: una cosa che avrebbe prodotto 3mila morti, per fame, alla settimana.

Vale la pena di ricordare cosa dicesse, in proposito, il rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification) rilasciato il 16 giugno di quest’anno da FRC (Famine Review Committee) in relazione ai livelli di approvvigionamento e disponibilità alimentare a Gaza. Diceva due cose: che non c’era stata la carestia nei mesi precedenti, e che non esistevano dati che ne dimostrassero l’esistenza a quella data. Messo di fronte al rilievo che la sua accusa di “provocata carestia” appariva campata per aria già quand’era svolta, e risultava del tutto inconsistente alla luce delle successive evidenze, il procuratore Khan comunicava che lui “in quella fase” non poteva sottoporre alla Corte ulteriori riscontri. Le prove erano dunque “oggettive e verificabili” in questo specialissimo senso: che sul tavolo della Corte mancavano quelle di segno contrario.

Ma ancora non basta. Perché la Corte, nel sunteggiare il contenuto degli ordini di arresto su cui ha apposto il segreto, spiega poi (ne abbiamo fatto cenno ieri, ma vale la pena di tornarci) che dal fastello di accuse circa i deliberati attacchi nei confronti dei civili ha potuto cavare solo due casi degni di accertamento (“Il materiale fornito dalla Procura – spiega la Corte – ha permesso di fare valutazioni solo su due incidenti che si sono qualificati come attacchi intenzionalmente diretti contro i civili”). Chissà che cosa sarebbe successo se le richieste di arresto si fossero originariamente fondate sui dati disponibili (non sulle vociferazioni) relativi alla supposta carestia e, anziché su ipotesi di “sterminio” e omicidi di massa, su “due” attacchi che avrebbero coinvolto dei civili. Chissà se la Corte avrebbe avuto il coraggio di emettere quei mandati.

Il procuratore Khan può dunque vantarsi di aver ottenuto il risultato cui ambiva? Diremmo proprio di sì, nel senso che l’ha ottenuto nonostante la pochezza e la fragilità delle prove che sorreggevano i suoi argomenti d’accusa.