La Corte internazionale di giustizia non ha avuto dubbi. Israele deve bloccare immediatamente l’offensiva su Rafah, aprire il valico di frontiera nei pressi della città per rifornire di aiuti la popolazione, garantire l’ingresso di investigatori incaricati dalle Nazioni Unite che indaghino sulle accuse di genocidio, e riferire di tutto questo entro un mese con un rapporto da presentare allo stesso tribunale. Una decisione storica, che se da un lato mostra la volontà della Corte di mettere in chiaro quali siano, per i giudici, le responsabilità di Israele in questo conflitto, dall’altro pone un enorme punto interrogativo sul futuro della guerra ma anche sul modo in cui il governo di Benjamin Netanyahu potrà rapportarsi con la comunità internazionale.

Dallo Stato ebraico, le reazioni non potevano che essere quelle della totale avversione nei confronti del tribunale. Subito dopo l’annuncio della sentenza, Netanyahu ha convocato una riunione d’emergenza con il ministro degli Esteri, Israel Katz, il ministro degli Affari strategici, Ron Dermer, il ministro della Giustizia, Yariv Levin ed il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Il ministro della Sicurezza interna, il leader dell’ultradestra Itamar Ben-Gvir ,ha affermato senza mezzi termini che “ci dovrebbe essere una sola risposta all’ordine non pertinente del tribunale antisemita dell’Aia: l’occupazione di Rafah, l’aumento della pressione militare e la completa sconfitta di Hamas”. E per il portavoce del governo, David Mencer, “fermare la guerra contro Hamas” rappresenterebbe “un suicidio collettivo”.

“Non c’è potere al mondo che ci possa spingere a commettere un suicidio pubblico, perché è di questo che si tratta se fermiamo la nostra guerra contro Hamas”, ha continuato Mencer. Anche l’ex generale Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra e leader dell’opposizione, ha chiarito che “lo Stato di Israele ha intrapreso una campagna giusta e necessaria dopo che una brutale organizzazione terroristica ha massacrato i nostri cittadini, violentato le nostre donne, rapito i nostri bambini e sparato missili contro i nostri centri urbani” e che per questi motivo, lo Stato ebraico è “obbligato a continuare a combattere per riportare a casa gli ostaggi e garantire la sicurezza dei suoi cittadini, in ogni e luogo, anche a Rafah”. E pure chi dell’opposizione non è entrato nel governo di emergenza, Yair Lapid, su X ha scritto che “il fatto che nella sua sentenza l’Alta Corte dell’Aja non abbia collegato la cessazione dei combattimenti a Rafah con il ritorno degli ostaggi e il diritto di Israele a difendersi dal terrorismo è un collasso morale”.

Il timore di molti osservatori è che ora possa esserci un ulteriore inasprimento delle azioni militari nella Striscia (ma non solo). Per Netanyahu si tratta di un momento difficile, visto che questa decisione della Corte internazionale di giustizia è arrivata dopo due episodi recenti che hanno messo a nudo le difficoltà del governo israeliano nel migliorare la percezione da parte dell’opinione pubblica mondiale. E con essa di quella degli altri governi, soprattutto alleati (e soprattutto d’Oltreoceano). La richiesta da parte del procuratore della Corte penale internazionale di emettere mandati di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità rivolta a Netanyahu e Gallant è stato un colpo durissimo per l’esecutivo agli occhi di un mondo che appare sempre più critico verso il modo in cui lo Stato ebraico conduce la guerra. E la scelta di Spagna, Norvegia e Irlanda di riconoscere lo Stato di Palestina, seppure una mossa più politica che efficace dal punto di vista giuridico, può rappresentare un significativo momento di rottura nelle relazioni tra Tel Aviv e il resto dell’Occidente.

Netanyahu lo sa. E sa soprattutto che queste mosse arrivano mentre la guerra nella Striscia, e in generale contro le varie fazioni nemiche (dal fronte nord con Hezbollah a quello “interno” della Cisgiordania), non sta raggiungendo gli obiettivi che erano stati prefissati dopo il 7 ottobre. Hamas, che ieri ha commentato la sentenza della Corte di giustizia dicendo che “non è sufficiente”, pur lodando l’eventuale ingresso di investigatori internazionali, non è stata militarmente sconfitta. Gli scontri nella Striscia proseguono non solo a Rafah, dove la Corte è intervenuta per chiedere lo stop immediato ai raid e all’assedio delle truppe delle Israel defense forces, ma anche nella parte centrale e settentrionale. E sul fronte della liberazione degli ostaggi, nonostante i colloqui siano ripresi con l’impegno degli Stati Uniti, dell’Egitto e anche dello stesso Qatar, la situazione appare sempre più difficile. Ieri sono stati recuperati altri tre corpi. L’impegno di Israele sembra esserci. “Abbiamo un dovere nazionale e un obbligo morale di fare tutto ciò che è in nostro potere per riportare indietro i nostri ostaggi, i vivi e i caduti, ed è quello che stiamo facendo” ha detto Netanyahu. Ma tutto fa credere che le condizioni per un accordo siano più difficili di prima.