Oltre che a Benjamin Netanyahu, la Suprema corte dell’Aja ha proposto un mandato di cattura all’uomo considerato l’artefice militare e politico dell’attacco e la strage del 7 ottobre che, per come avvenne e per la crudeltà oltraggiosa con cui fu condotto, ha portato alla Guerra di Gaza con le sue decine di migliaia di morti. È stato per vent’anni un prigioniero nelle carceri israeliane ed ha imparato come funziona Israele. Uscito, ha dedicato la sua vita a realizzare la strage. È lui il mediatore e il comandante, ed è l’uomo più ricercato del mondo. Si suppone che viva in un rifugio sotterraneo nel labirinto delle gallerie di Hamas.

Tre giorni per contattare Sinwar

Occorrono tre giorni per consultare Yahya Sinwar. Lui aspetta nella sua caverna foderata di alluminio, annota e risponde. La catena dei messaggeri riparte in senso opposto. È stato il regista di ogni macabro dettaglio della strage del 7 ottobre (comprese le telecamere sulla testa di chi stuprava e decapitava, immediatamente in streaming) e lo stratega di questa guerra. Gli israeliani sperando di acciuffarlo lo hanno chiamato un “morto che cammina”, ma lui cammina benissimo nella rete detta “la metropolitana di New York”. Una donna ostaggio lo ha riconosciuto in una foto sotterranea con dei bambini, forse la sua famiglia.
Condannato all’ergastolo come “boia di Khan Younis”, per anni aveva strozzato o sgozzato nel suo villaggio decine forse centinaia di palestinesi apostati o sospetti di collaborare con gli israeliani. Essendo un fondamentalista aveva costituito una polizia morale che castigava le adolescenti e le donne in genere, all’uso iraniano. Fu arrestato per i suoi crimini commessi in nome e per conto di Hamas da quando aveva preso il potere sulla Striscia di Gaza dopo lo sterminio degli uomini dell’Olp.

Il compagno di cella: “Nato leader”

Condannato negli anni Novanta all’ergastolo, ha avuto per qualche anno come compagno di cella Salah al-Din al-Awawdeh, che è il testimone più attendibile della personalità di Yaya Sinwar negli anni Novanta. Salah al-Din è stato interrogato per molti giorni ed ha sempre ripetuto che “Sinwar non è una ruota, una parte dell’ingranaggio. È leader perché nato leader. Ha sempre l’ultima parola e ha studiato per anni e fin nei minimi dettagli l’attacco del 7 ottobre. Un attacco disegnato come un vestito su misura dei sentimenti e della personalità degli ebrei, il loro senso della famiglia. È lui che ha imposto al governo israeliano non una rappresaglia, ma una guerra per la vita e per la morte sapendo che per trovare e colpire i quadri di Hamas l’Idf avrebbe dovuto colpire gli scudi umani, scuole, ospedali, caseggiati strapieni di civili”.

Sinwar e 999 palestinesi per un soldato israeliano

Gli abitanti di Gaza non hanno accesso alla rete dei tunnel d’acciaio che sviluppano una rete in parte percorribile in auto di oltre 500 chilometri. Sinwar entrò in Hamas a 18 anni nel 1980. Arrestato, processato e condannato all’ergastolo fu rilasciato nel 2011 insieme ad oltre altri mille palestinesi in cambio di un solo soldato israeliano, Gilad Shalit: il giovane sergente adolescente che Israele volle liberare a furor di opinione pubblica, liberando anche l’uomo che avrebbe provocato la strage del 7 ottobre 2023.
È stato l’unico detenuto palestinese capace di trasformare la prigionia in uno stage universitario, una ricerca sociologica e culturale. Imparò l’ebraico non soltanto come lingua ma come mentalità. E studiò le emozioni, la letteratura, i film, l’affettività degli ebrei, il loro umorismo, il valore che danno alla donna e ai bambini, imparò tutto quel che serviva per individuare i punti deboli. Ciò per gli ebrei poteva essere tollerato e ciò che è intollerabile – la memoria dell’Olocausto – e lesse sia la Torah che il Gerusalem Post, ascoltò i suoi carcerieri, la televisione, le conversazioni. Aveva imparato tutto dello Stato di Israele e dei suoi abitanti, ma più che altro il loro modo di sentire e reagire.

Stage universitario in carcere, poi la macelleria del 7 ottobre

Tanti anni, più che sufficienti se uno decide di farne un investimento di comprensione e uno di strategia militare. Yahya Sinwar sentì di avere tutti gli elementi per il più terribile show terrorista cui il mondo abbia assistito: un attacco non soltanto contro i soldati israeliani, ma contro le donne e bambini. Una macelleria che richiedeva combattenti feroci e privi di empatia, gente capace di mantenere un’erezione mentre stupra e sgozza, capace di uccidere le ragazze sparando nella loro vagina per colpire la capacità di generare. Bisogna essere sociopatici o diventarlo per addestramento, così come si impara a gettarsi da un aereo cominciando da un salto sulle balle di fieno. Essere sociopatici significa non provare pena per le vittime: non solo malati perché non sono curabili. I macellai non possono permettersi di provare sentimenti di fronte al disperato terrore dell’agnello e per questo nell’antichità l’uccisione sacrificale avveniva con rituali che riducevano l’angoscia della vittima.

Sinwar e i terroristi sociopatici

Un genocidio non si misura per quantità, ma per qualità. La qualità sta nell’intenzione di distruggere la capacità di un popolo di riprodursi. Per questo motivo la sterilizzazione di massa è genocidio anche quando si tratta di gatti. Uccidere tutte le femmine in età fertile è genocidio, mentre massacrare per mettere in fuga attraverso il terrore, la pulizia etnica, è un enorme delitto ma non necessariamente un genocidio. Mentre scrivo, e dunque mentre voi leggete, nel Darfur che è una regione del Sudan del Sud, è ripreso il genocidio degli africani di pelle nera da parte degli arabi e per questo la Shoah fu un genocidio: perché non ammetteva eccezioni e cercava l’adolescente Anna Frank. Come tagliare la testa dei neonati nelle culle, e dar fuoco a bambini e bambine che giocano nel prato senza provare alcun sentimento, e mutilare gli organi di riproduzione delle donne non soltanto violentate ma poi uccise. E poi la strage degli innocenti: i neonati scannati come ai tempi di Erode e i bambini festosi accesi come torce davanti a madri e nonne, poi a loro volta scannate.

Sinwar e lo studio dell’ira sionista

Uno stratega capace di concepire un delitto a misura d’identità e memoria di un popolo da espellere o da sterminare. Altro che Stato palestinese. “Vogliamo una Palestina senza ebrei dal Giordano al mare”, from the river to the sea, come scandiscono gli studenti occidentali che adorano Hamas e detestano Israele. Tutto ciò è stato frutto dello studio metodico culturale dell’ergastolano Yahya Sinwar man mano che imparava a valutare le reazioni emotive e militari, giornalistiche e diplomatiche degli ebrei, dedicandosi alla loro lingua, film, giornali, storia, umori e specialmente all’ira con cui gli israeliani avrebbero risposto ad una infamia come quella del sette ottobre. Il resto sarebbe venuto da solo: la rete dei tunnel costruita “come la metropolitana di New York” è stata progettata in modo da far proteggere i suoi gangli sotto le scuole, nei sotterranei degli ospedali, sotto gli edifici civili: se volete darci la caccia, dovrete accollarvi il peso morale dei bambini morti sotto le macerie.

L’artefice della rovina di Israele 

E il mondo, pensava lucidamente Sinwar, avrebbe con sollievo liquidato l’indigesta memoria del 7 ottobre per dedicarsi al crudele e spudorato Stato di Israele ferito a morte. Israele ha fatto, e seguita a fare, ciò che Sinwar aveva progettato. E da tempo Israele sa che è Sinwar l’artefice e il regista della sua rovina e gli dà per ora vanamente la caccia così come gliela danno tutti i servizi segreti a partire dagli americani della Cia, oggi in rotta di collisione con il Mossad. L’intelligence americana accusa quella israeliana di aver perso la testa e di bombardare a casaccio pur di arrivare al cunicolo nelle viscere della terra in cui Sinwar ha la sua base.

Stupri e stragi con sadismo cinematografico

Quel che si sa è che quando si svolgono trattative tra Hamas e Israele attraverso i mediatori egiziani e del Qatar, ogni proposta deve essere recapitata a Sinwar affinché la valuti. E ci vuole almeno un giorno di percorsi segreti affinché Sinwar riceva il messaggio e un altro giorno per far arrivare la sua risposta. La sua strategia è consistita nel varcare le colonne d’Ercole del male assoluto fatto di morte e disprezzo sessuale, mutilazione e infertilità, e aver addestrato un esercito a compiere atti che in genere i soldati delle più crudeli guerre commettono occasionalmente: stupri, stragi di famiglie intere, con il sadismo cinematografico di usare telecamere individuali che riprendessero le scene più inaccettabili, che sono quelle che nel suo progetto dovevano far perdere il senno alla macchina militare israeliana.

Israele in trappola “emotiva”

Sinwar fu liberato nel 2011, grazie alla mediazione di Egitto, Qatar, Turchia e Germania. Lui e altri mille e ventisei prigionieri palestinesi per liberare un unico soldato israeliano, il caporale Gilad Shalit, promosso sergente di prima classe. Per il diciottenne ebreo francese che aveva scelto di combattere per Israele, la patria ebraica si schierò, pianse supplicò di liberare Gilad Shalit a qualsiasi prezzo che fu infatti altissimo: più di mille palestinesi contro adolescente caporale. Una cosa che in Medio Oriente soltanto gli ebrei di Israele avrebbero potuto fare. Sinwar prese nota: popolo determinato ma emotivo e irragionevole quando sono in gioco i valori della vita. Sinwar rientrò e cominciò a lavorare al suo progetto fondato sulla massima offesa e la più irrefrenabile reazione, per causare il massimo danno. Così ora Israele sembra in trappola: abbandonata persino dagli americani, biasimata nel consesso civile, da vittima delle oscene mutilazioni e stragi di donne e bambini è paralizzata nella camicia di Nesso che Sinwar ha tessuto in più di vent’anni. All’imprudente Bibi Netanyahu non resta altro che sfidare i mulini a vento, mentre il vento soffia contro di lui.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.