Il recente intervento di Guido Neppi Modona (Il Riformista, 8 maggio, 2021) sui problemi della giustizia stimola, per la sua indiscussa autorevolezza (è stato magistrato, professore d’università, componente della Corte costituzionale), alcune riflessioni sul merito delle sue proposte, che nascono dalla consapevolezza ormai diffusa di una realtà stigmatizzata con espressioni particolarmente dure. Queste sono rivolte non solo a quei magistrati che, accentrando e monopolizzando all’interno delle correnti le decisioni del Consiglio superiore della magistratura (Csm), hanno fatto «scempio… dei principi di legalità su cui avrebbero dovuto basarsi»; ma anche di quelli che per perseguire le loro legittime aspettative di carriera hanno cercato di «ottenere una posizione di favore illegittima», facendo «mercimonio della propria indipendenza, considerato che qualcuno, in perfetto stile mafioso, sarebbe poi venuto a chiedergli di saldare il conto!».

La gestione illegale del Csm non si esaurisce quindi al suo interno, ma si riverbera, anche se questo aspetto troppo spesso viene trascurato o non approfondito in modo sufficiente, su tutto l’apparato giudiziario, compromettendo i principi fondamentali di indipendenza e di autonomia dei magistrati, la loro subordinazione alla legge e di riflesso i diritti dei cittadini. L’incresciosa degenerazione dei comportamenti di una parte della magistratura, purtroppo non marginale, «causata dallo strapotere delle correnti e dall’esasperata autotutela corporativa dei magistrati, soprattutto del pubblico ministero», lo conduce a una ferma dissociazione, espressione di una onestà intellettuale fondata su una logica coerenza, nutrita dai principi costituzionali e dalla conoscenza della realtà, che sfocia nella contestuale ricerca di soluzioni concrete nel tentativo di impedire il loro ripetersi. È piena, quindi, la consapevolezza non solo della gravità dei fatti emersi, specialmente in questi due ultimi anni, ma anche della conseguente profonda delegittimazione dell’apparato giudiziario nei confronti dei cittadini e della corrispondente ineludibilità di rilevanti ed effettivi interventi di riforma, oggi ancora più urgenti alla luce della concreta possibilità di attivazione di una procedura referendaria.

Al di là dei suoi contenuti e degli eventuali risultati, questa finirebbe per un periodo certamente non breve con il mettere sul banco degli imputati la magistratura nel suo complesso, contribuendo da un lato a delegittimarla ulteriormente agli occhi della pubblica opinione, con effetti forse peggiori di quelli prodotti da una commissione parlamentare d’inchiesta, e dall’altro a precostituire le condizioni politiche per interventi limitativi della sua indipendenza. Neppi Modona propone quindi di intervenire su un duplice piano: a medio termine con la procedura di revisione dell’art. 104 della Costituzione per modificare la composizione del Csm; nell’immediato, in vista del rinnovo di questo organo nel settembre dell’anno venturo, con una modifica della legge elettorale che sopprima il prepotere delle correnti sul Csm e di riflesso sulla carriera dei magistrati.

Prescindendo per il momento dalla revisione della legge elettorale, la componente cosiddetta “togata” del Csm, attualmente composta per due terzi da magistrati ordinari eletti tra gli appartenenti alle diverse categorie, dovrebbe essere ridotta preferibilmente “a un terzo” o comunque a non più della metà; quella “politica”, eletta dal Parlamento in seduta comune – quindi espressione dei partiti politici – tra professori ordinari di materie giuridiche e avvocati con più di quindici anni di esercizio professionale, oggi pari al terzo rimanente, verrebbe soppressa. La proposta di modifica è quindi radicale, ma al contempo razionale e coerente, perché prende atto delle disfunzioni esistenti, ne individua una causa nelle modalità di composizione del Csm e colpisce entrambe le componenti.

La prima, considerata responsabile delle pesanti deviazioni dal principio di legalità e quindi ritenuta di fatto inidonea ad “autogovernarsi”, verrebbe ridotta preferibilmente al ruolo di una minoranza, per quanto consistente; la seconda sarebbe addirittura soppressa, nella consapevolezza che l’attitudine dei partiti a condizionare le decisioni del Csm, subordinandole ai propri interessi, costituisca un fattore di inquinamento della loro limpidità e legalità. Il plenum dell’organo sarebbe poi reintegrato con l’elezione dei consiglieri rimanenti affidata in parte ai presidi dei Dipartimenti universitari della Facoltà di Giurisprudenza e in parte ai Consigli forensi. Alla Conferenza dei rettori spetterebbe infine eleggere un numero imprecisato di esponenti della cultura anche con preparazione non giuridica.

Questa proposta, condivisibile nei presupposti che la ispirano, nel merito lascia tuttavia perplessi. La natura giuridica delle decisioni attribuite al Csm e la loro rilevanza politico-istituzionale sconsigliano innanzi tutto di integrarlo con personalità prive di una solida formazione e competenza giuridica; i presidi dei Dipartimenti giuridici, cui sarebbe attribuita la scelta della componente “accademica”, non hanno sotto questo profilo alcuna capacità rappresentativa dei collegi che li hanno eletti e quindi deciderebbero a titolo personale su questioni di particolare rilevanza istituzionale; la presenza di una componente forense, essenziale all’interno dei Consigli giudiziari per la valutazione della professionalità dei magistrati, potrebbe rafforzare la natura corporativa del Csm, sostituendo l’attuale monopolio di fatto dei magistrati con un duopolio magistrati-avvocati, che potrebbe essere fonte di ulteriori disfunzioni. Decisiva e assorbente appare infine la considerazione che il corretto funzionamento dell’apparato giudiziario, nelle sue decisioni di vertice affidato al Csm, è materia di rilevanza anche politico-istituzionale e di preminente interesse pubblico, che non può non essere attribuita a soggetti in modo diretto o indiretto rappresentativi della sovranità popolare.

Ferma quindi la presenza nel Csm di una rappresentanza non maggioritaria di magistrati, la selezione dei consiglieri rimanenti non può non essere affidata agli organi costituzionali e in particolare, escluso il governo in quanto derivazione dei soli partiti di maggioranza, al Parlamento in seduta comune, nel quale sono rappresentate tutte le forze politiche espresse dalla consultazione elettorale, e al presidente della Repubblica nella sua funzione di rappresentante dell’unità nazionale e di garante della Costituzione. Il meccanismo di composizione del Csm deve però essere tale da impedire, requisito imprescindibile, che la derivazione politica dei consiglieri li spinga a soddisfare gli interessi contingenti dei soggetti da cui sono designati a detrimento di quelli generali della collettività.
Il modello cui ispirarsi dovrebbe allora essere quello della composizione della Corte costituzionale, della cui competenza e imparzialità, consolidate nei decenni, nessuno può dubitare.

I componenti del nuovo Csm dovrebbero quindi essere eletti dal Presidente della Repubblica, dal Parlamento in seduta comune e dai magistrati, ciascuno per un terzo, in modo che nessuna componente possa prevalere sulle altre e imporre le proprie decisioni. Il numero dei suoi componenti dovrebbe essere inferiore e non maggiore di quello attuale. Un numero ridotto, preferibilmente quindici, favorisce infatti la selezione dei migliori, specialmente nell’ambito parlamentare, nel quale la previsione per l’elezione di una maggioranza qualificata impedirebbe il successo di candidati ritenuti privi dei requisiti necessari o comunque troppo legati a un partito politico e quindi tendenzialmente parziali. La durata in carica dei consiglieri dovrebbe inoltre essere sufficientemente lunga, comunque maggiore dell’attuale, per dare ad essi stabilità e autorevolezza e svincolarli da eventuali condizionamenti politici: potrebbe essere di sette anni, anche per differenziarla da quella dei componenti la Corte costituzionale, che restano in carica nove anni.

Del nuovo Csm non farebbe parte il Presidente della Repubblica. Non è questa una diminuzione della sua funzione costituzionale, perché è compensata dal potere di nominare un terzo dei consiglieri. Questo potere dovrebbe però essere esercitato al fine di riequilibrare la composizione dell’organo, dando cioè espressione a orientamenti culturali importanti nella società ma non rappresentati. D’altronde, se invece gli dovesse essere confermata la presidenza del Csm, questa, unita al potere di nomina del terzo dei consiglieri, lo trasformerebbe nel soggetto dominante al suo interno, rendendolo di fatto responsabile, anche politicamente, delle decisioni di vertice dell’apparato giudiziario, in contrasto con la natura di garante della costituzione che caratterizza la sua funzione.

L’ultimo problema da affrontare è quello dei poteri del nuovo Csm. La soluzione più semplice è quella di mantenere quelli attuali individuati dalla Carta costituzionale: assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari (competenza quest’ultima che diventerebbe esclusiva e quindi non soggetta a ricorsi amministrativi) nei confronti dei magistrati. Potrebbe però essere opportuno ampliarli ulteriormente, estendendoli alla responsabilità civile e penale di secondo grado dei magistrati. Se infatti la responsabilità disciplinare oggi non funziona per il corporativismo dei magistrati, non è possibile escludere che ne siano almeno potenzialmente affette anche le decisioni sulla responsabilità civile e penale.