Alcune certezze – poche – ci sono a proposito dell’accordo, ieri dato per quasi raggiunto, sulla invocata tregua a Gaza e sulla agognata liberazione degli ostaggi che Hamas ancora trattiene a distanza di 467 giorni dai rapimenti del 7 ottobre del 2023. E le poche certezze sono queste: che gli ostaggi israeliani non sarebbero liberati tutti immediatamente ma, semmai, a blocchi; che per ogni ostaggio israeliano eventualmente liberato, sia esso un bambino o un vecchio malato, sarebbero rilasciati, a decine e decine, terroristi palestinesi i quali, se solo potranno, faranno ciò che hanno fatto e rivendicano di voler fare, cioè attaccare Israele e uccidere gli ebrei.

Queste non sono circostanze in zona di dubbio, non sono ipotesi, non sono previsioni fosche: sono, appunto, certezze. Per un ostaggio restituito (nemmeno si sa se in vita), altri due rimarrebbero nelle mani dei macellai di Hamas. Il che non ha un ricasco negativo soltanto sulla sorte degli ostaggi che, nel quadro dell’accordo, Hamas continuerebbe a trattenere, ma anche sulla gestione della tregua, sostanzialmente amministrata da una parte – Hamas – che perpetuerebbe la propria strategia terroristica rimettendosi in forze con Israele obbligato al ritiro e, soprattutto, tesaurizzando il bottino residuo dei sequestrati.

Per gran parte degli israeliani non si tratta di decidere se un accordo di tal fatta sarebbe un buon accordo o no: è giudicato pressoché da tutti un pessimo accordo, ma molti ritengono che debba essere concluso nonostante il fatto che sia pessimo. Giudicano che sia tale – pessimo – appunto perché implica che molti ostaggi continuino a rimanere nelle mani di Hamas e perché, ancora, implica la liberazione di un altissimo numero di terroristi palestinesi che, se saranno nella possibilità di farlo, continueranno a mettere in pericolo Israele e la vita degli israeliani.

Giudicano, in tantissimi, che questo accordo costituisca un premio per Hamas (che infatti ieri esultava) e un insulto per le centinaia di soldati caduti nella guerra di Gaza. Giudicano, altrettanti, che un accordo a queste condizioni accantoni pericolosamente l’esigenza di impedire ad Hamas di esercitare il proprio potere a Gaza, o comunque sacrifichi la necessità di neutralizzarne le capacità riorganizzative. Anche questo è certo, infatti, e anche questo dovrebbe essere chiaro a chiunque: se quel che rimane di Hamas potrà attaccare Israele e uccidere gli ebrei, lo farà. E quanto più potere sarà lasciato ad Hamas, tanto più Hamas userà quel potere a quel fine; quanto più Hamas avrà modo di preservare e ricostituire le proprie capacità offensive, tanto più saranno in pericolo Israele e la vita degli ebrei.

Dunque, si ripete, non è in discussione la bontà dell’accordo, che non è buono punto e basta. Ma si giudica da parte di molti che debba ciò nonostante essere concluso perché, letteralmente, “ne vale la pena”, e cioè perché la liberazione anche solo di alcuni ostaggi, pur a dispetto del costo gravoso che occorrerebbe pagare per quel risultato, costituisce un’acquisizione inestimabile.

Ancora nel pomeriggio di ieri, peraltro, i termini più specifici dell’accordo non erano noti e persino la notizia secondo cui Hamas ne aveva comunicato l’accettazione era contraddetta. È possibile che, già per oggi, siano intervenute o possano intervenire notizie sugli sviluppi, ma la sensazione era e continua a essere che l’ingrandimento mediatico della presunta accettazione dell’accordo da parte di Hamas servisse a esercitare pressione sul governo israeliano, presentato come il terminale di una vicenda negoziale rimessa alle sue esclusive determinazioni, se non ai suoi capricci.

Una ambigua dichiarazione di Donald Trump di lunedì scorso, che non a caso ha suscitato notevole irritazione in Israele, rinvigoriva quell’impressione quando sollecitava la conclusione di quell’accordo senza distinguere troppo: devono concluderlo, ha detto (“they have to get it done”), una dichiarazione magari obbligata nelle condizioni date, ma stonata da parte di chi – giusto qualche giorno prima – ripeteva che ci sarebbe stato un prezzo infernale da pagare se Hamas non avesse rilasciato gli ostaggi, tutti, punto e basta.

A spiegare come parte non trascurabile dell’opinione pubblica israeliana sia polarizzata in modo sofferto verso l’accordo (non lo contrasta e anzi si augura che sia concluso, ma ne riconosce la portata potenzialmente pericolosa), c’è la reazione alle dichiarazioni del ministro oltranzista, e abbondantemente detestato, Itamar Ben-Gvir. Il quale si è esibito nella minaccia di lasciare il governo se questo accordo fosse concluso, rivendicando oltretutto di aver contrastato accordi simili nei mesi passati.

La repulsione diffusa per quel ministro non ha impedito, ai tanti che l’hanno sempre manifestata, di rimuginare qualche tributo di consenso quando quel politico tanto screditato – tra spropositi come “fermare completamente il trasferimento di aiuti umanitari e carburante, elettricità e acqua a Gaza” – ha detto che l’accordo sarebbe concluso “a costo della vita di molti altri cittadini israeliani, che, purtroppo, pagheranno con la vita il prezzo di questa transazione”.

Un’ultima cosa, infine, in questo quadro, è certa. A nessun altro paese, e a nessun altro popolo, si chiederebbe di concedere al proprio nemico quanto Israele concederebbe ad Hamas se questo accordo – come in tanti pur sperano – fosse concluso.