La politica estera del nuovo presidente
Trump rispolvera la Big Stick Policy e mostra i muscoli in politica estera
Il discorso sul Canale di Panama, il doppio monito sulla Groenlandia e la minaccia ad Hamas. Così torna in primo piano la vecchia “teoria del randello”, già firmata da Theodore Roosevelt
Spesso, per capire gli Stati Uniti, è necessario andare al cinema. Certo, con l’emergere della nuova Hollywood politicamente correttissima non è più semplice come un tempo cogliere alcuni messaggi subliminali, gli elementi tipici del retroterra culturale e soprattutto gli echi, quel sopravvivere di qualcosa nella memoria collettiva che arriva fino ai giorni nostri. Il cinema è stato per gli Usa il più importante megafono culturale e propagandistico, ma più di ogni altra forma d’arte ha saputo raccontare il senso profondo dell’America, radicalizzandolo o idealizzandolo in base alla necessità e donandoci pur sempre una mappa su cui muoverci per capire come si forma e cresce il sentire comune degli americani. Nel vecchio cinema – quello dei maestri di un tempo, soprattutto nel western che poi è l’epos americano per antonomasia – il ruolo di dar voce alla “pancia” dell’America è affidato ai caratteristi. Figure che completano la cornice in cui agiscono e si muovono eroi e antieroi – le due facce dell’America – e molte volte dicono quello che l’eroe in quanto tale non può dire.
Oltre le previsioni
Lì si celano spesso gli elementi fondanti di quella profonda psicologia nazionale che viene miticamente definita come “spirito americano”. Opposto e antitetico alle pulsioni di quella élite costiera, culturalmente europea e spogliata di quell’identità, che è poi la spina dorsale di una nazione che ha reagito politicamente con il voto massiccio per Donald Trump. Ed è stata smentita la narrazione confezionata per 4 anni dai grandi media e dalla costellazione di una stampa internazionale, che si è volutamente bendata per ragioni ideologiche e infine è stata costretta a un bagno di realtà il 5 novembre. Per capire l’America, leggere il New York Times è superfluo: bisogna invece ascoltare la voce autentica e ancestrale di quell’America che con troppa semplicità definiamo profonda, ma della quale non cogliamo fino in fondo il senso. E nessuno come Trump l’ha saputo fare per ben due volte contro ogni previsione. Quando scese in campo per le primarie del 2016, uno dei luoghi simbolo che visitò e dal quale parlò per lanciare la sua cavalcata alla Casa Bianca fu il museo dedicato a John Wayne, il più tradizionale simbolo dell’America nel mondo, il “Re dei cowboy”, la quintessenza dell’America conservatrice. Così nelle primarie del 2023 nello Stato dell’Iowa, una delle immagini più ricorrenti raffigurava Donald abbracciato alla bandiera americana tra John Wayne e Gesù.
La “dottrina Monroe”
Quell’America non scompare con la notte elettorale, non si è eclissata con la vittoria del tycoon. Al contrario, ora attende la sua riconquista morale e anche politica. È quella l’America a cui Trump parla ogni giorno con i suoi interventi social, le sue frecciatine e le sue interviste. Quello è il paese al quale si è indirizzato nella sua ultima conferenza stampa, preannunciando molti dei punti di quello che sarà il suo discorso inaugurale del 20 gennaio. Ha – de facto – ripristinato la “dottrina Monroe”, declinandola alle necessità del presente e annunciando il ritorno della supremazia degli Stati Uniti sul continente americano. Ha usato immagini forti che fossero bene chiare a tutti. E Canada, Groenlandia e Golfo del Messico sono stati tre esempi chiari della sua visione geopolitica. Certo, nel discorso canadese qualcuno ha intravisto gli elementi di una rinnovata convinzione dell’America Wasp (white anglo-saxon protestant) da contrapporre alla spinta sempre crescente delle minoranze. Elemento che fa presa su una parte dell’elettorato bianco e non solo di destra, ma non è l’orizzonte verso il quale si muovono i repubblicani americani e il movimento Maga, che nella crescita di consensi nelle minoranze (in particolare sui “latinos”) ha costruito una parte essenziale della vittoria elettorale di novembre.
Il discorso relativo al Canale di Panama rientra nella strategia anti-cinese e nell’inviolabilità del continente americano, e per questo non è da escludere che il discorso del neo presidente possa superare i confini dell’America centrale. Del resto gli Usa non possono e non vogliono permettersi di perdere la propria sfera di sicurezza, come non lo fecero in passato (crisi di Cuba). Non è un mistero che a una parte dell’opinione pubblica americana non sia mai andata giù la cessione del Canale, soprattutto nel mondo repubblicano, e Trump non ha mancato di additare la figura dell’ex presidente Jimmy Carter nel giorno in cui la sua salma veniva traslata a Washington, applicando il vecchio insegnamento di Voltaire secondo cui “ai vivi si deve il rispetto, ai morti la verità”. Così le frasi sulla Groenlandia suonano anch’esse come un doppio monito: il primo indirizzato a Copenaghen affinché intensifichi la sua attenzione all’Artico; la seconda proprio agli inuit che meditano l’indipendenza, con il rischio di diventare facile preda delle potenze “nemiche” in un’area sempre più strategica, facendo intuire a chiare lettere che gli Stati Uniti non potrebbero permetterlo e sarebbero costretti a intervenire. Posizione che potrebbe, in un certo senso, rafforzare la Danimarca e placare le richieste di indipendenza della Groenlandia.
Trump, oltre alla “dottrina Monroe”, sembra aver rispolverato la vecchia “teoria del randello” o “Big Stick Policy” firmata dal presidente Theodore Roosevelt e poi da molti successori. E forse anche in questo caso il cinema ci torna in aiuto per capire questa nuova politica – nuova solo perché abbiamo smesso di studiare la storia – ed è “Il Vento e il Leone” del 1975. Pellicola che racconta in chiave romanzata, scavando nel profondo, il primo affaire internazionale degli Stati Uniti di Teddy Roosevelt dopo la “dottrina Monroe”. E se analizziamo le parole che Trump ha indirizzato ad Hamas (chiedendo il rilascio entro il 20 gennaio degli ostaggi o “scoppierà l’inferno”), di cosa si tratta se non di pura e semplice “Big Stick Policy”? Certo, il sogno di Trump è quello di assistere – come fu per Reagan – al rilascio degli ostaggi il giorno del suo insediamento.
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