Le forze armate israeliane e Benjamin Netanyahu sono convinti di non aver ancora raggiunto i loro obiettivi nella Striscia di Gaza. Hamas è stata decapitata a livello politico e militare, indebolita, con i flussi di risorse dall’Iran interrotti e soprattutto con una Striscia occupata dall’esercito dello Stato ebraico.

Ma l’operazione militare iniziata dopo il 7 ottobre 2023 non è ancora terminata e lo confermano i raid delle ultime ore. I caccia dell’aviazione israeliana hanno colpito Hamas due volte. In un primo bombardamento notturno, i missili hanno centrato la zona umanitaria di Mawasi, a ovest di Khan Younis, dove sono state uccise 11 persone (tra cui 3 minorenni) e in cui gli obiettivi più importanti sono stati il capo della polizia di Hamas a Gaza, Mahmoud Salah, e il suo vice, Hussam Shahwan. Un secondo attacco, nelle ore successive, ha avuto come obiettivo sempre la zona di Khan Younis, dove è stato colpito un edificio amministrativo usato da Hamas come centro di comando. Nel raid sono morte 6 persone e l’Idf ha ancora una volta puntato il dito contro la milizia, accusandola di “violare sistematicamente il diritto internazionale, usando la copertura di rifugi, edifici e popolazione civile come scudo umano”.

La guerra, quindi, continua. E anche se aumenta la pressione internazionale per la situazione umanitaria nella Striscia, Netanyahu non sembra intenzionato a fare marcia indietro. Gli ostaggi sono ancora lì nell’exclave palestinese. Uno di loro, a detta del Jihad islamico, avrebbe anche tentato il suicidio. E il governo israeliano pretende una lista dettagliata delle persone vive da liberare. Hamas ha inviato una sua delegazione a Doha per continuare i colloqui, e dall’organizzazione palestinese filtra ottimismo nonostante nei giorni scorsi le fonti del Wall Street Journal abbiano parlato di uno stallo che potrebbe durare almeno fino all’insediamento di Donald Trump.

”Questa volta ci sono buone possibilità che i negoziati abbiano successo”. Queste le parole dell’alto funzionario di Hamas, Abu Marzouk, al quotidiano del Qatar al-Araby al-Jadeed. Ma la strada sembra ancora in salita e la milizia palestinese, secondo le indiscrezioni della stampa israeliana, si starebbe anche riarmando. Per i dati ottenuti da Channel 12, nella Striscia di Gaza ci sarebbero tra i 20mila e i 23mila combattenti, non tutti di Hamas ma in buona parte arruolati nel gruppo. Il Jerusalem Post ha dato numeri diversi, ma in ogni caso le divergenze sulle cifre non smentiscono il fatto che Hamas – nonostante la guerra – abbia ancora una capacità di reclutamento solida, come del resto è stato dimostrato anche dalla sua riorganizzazione nelle aree in cui le truppe di Israele si sono ritirate.

Per Bibi la partita di Gaza è centrale, anche perché si tratta dell’epicentro di una sfida che da subito è diventata su 7 fronti e che guarda all’Iran come grande avversario strategico. A Teheran sono pronti a ricevere il premier iracheno, Mohammed Shia’ Al Sudani, per fare il punto della situazione e cercare di serrare le file dopo la caduta di Bashar al-Assad in Siria e i tentennamenti delle milizie sciite in Iraq. Gli Houthi, in Yemen, rappresentano il nemico più lontano ma anche quello che può dare filo da torcere alla contraerea israeliana e al commercio mondiale.

Tra i dossier ancora caldi è rimasto anche il Libano, dove il leader di Hezbollah, Naim Qassem, è tornato a parlare assicurando che “la resistenza continua” e che dal cessate il fuoco il suo gruppo “ha ripreso salute”. Difficile verificarlo, a maggior ragione dopo che la caduta di Assad ha provato l’Iran e il Partito di Dio del corridoio siriano (e a Tripoli, nel nord del Libano, sono apparsi anche ritratti del capo dei ribelli, Ahmed al-Sharaa). Ma mentre la fragile tregua tra Idf ed Hezbollah regge nonostante le violazioni, in molti si chiedono quale sia il percorso intrapreso davvero dal movimento sciita e quando si sbloccherà l’impasse di un Libano devastato dalla guerra e da una crisi endemica.