Da mesi e mesi a questa parte non c’è un provvedimento della Corte Internazionale di Giustizia né un ricorso che ne reclami l’emissione, non c’è un rapporto o una risoluzione dell’Onu, non c’è una dichiarazione del procuratore della Corte Penale Internazionale, non c’è un appello di qualche sigla della cooperazione internazionale in cui non si denunci – imputandone la responsabilità a Israele – l’aggravarsi della situazione umanitaria a Gaza.

Sul presunto “uso della fame come arma di guerra” si affastellano, da ormai più di un anno, le requisitorie secondo cui Israele sarebbe colpevole di crimini di guerra, di sterminio e di genocidio riducendo appunto alla fame, e in condizioni di carestia, la popolazione di Gaza. In particolare, Israele si abbandonerebbe alla commissione di quei crimini ostacolando il flusso degli aiuti e deliberatamente attaccando il personale e i convogli umanitari. È successo – non frequentemente – che nel corso di azioni belliche nella Striscia siano stati coinvolti operatori della cooperazione internazionale. A volte – raramente – per colpevole avventatezza delle forze israeliane; altre volte – banalmente quanto tragicamente – perché si tratta di uno scenario di guerriglia urbana in cui simili incidenti possono succedere con facilità.

Ciò che invece non è successo – mai – è che Israele abbia programmato e messo in atto la campagna di assedio e sterminio per fame di cui si straparla e che – dopo un anno e passa di guerra, e se davvero avesse avuto luogo – avrebbe annichilito gran parte della popolazione di Gaza. L’altro giorno l’Unrwa (l’agenzia Onu per il sussidio dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente) denunciava che cento camion di aiuti erano stati attaccati da uomini armati, dunque sequestrati e finiti chissà dove. Una denuncia molto circostanziata salvo che per il trascurabile dettaglio relativo all’identità degli aggressori: non discutendosi di sterminatori israeliani, ma di miliziani palestinesi, era inutile esercitarsi in troppe precisazioni.

Ma non era inutile, per il rappresentante dell’Onu incaricato di raccontare la vicenda, spiegare che Israele, in quanto forza occupante, dovrebbe garantire l’incolumità del personale umanitario. Come? Scortando i convogli? No, ha risposto, perché in tal modo quegli operatori diventerebbero un bersaglio della controparte. A quel punto gli hanno domandato: scusi, prima dice che l’esercito deve difendervi, poi dice che l’esercito dovrebbe stare lontano dai vostri convogli. Non c’è qualche contraddizione? Il signore dell’Onu l’ha sciolta così: “La migliore protezione è che la guerra finisca”.

Bellissimo. Il guaio è che la guerra che non finisce è anche, anzi prima di tutto, la guerra che Hamas (il nome che l’Onu fatica a pronunciare) conduce invocando il martirio della propria popolazione, trasformando in bunker gli edifici dell’Onu, non liberando gli ostaggi, attaccando i convogli umanitari, inguattando gli aiuti e rivendendoli a strozzo alla povera gente. Ma non è materia per le indignazioni delle Nazioni Unite.