Ieri i macellai di Hamas hanno comunicato di non poter fornire la lista degli ostaggi ancora in vita tra quelli rapiti ormai quattrocentoquarantotto giorni fa. Due motivazioni, banali quanto ignobili, spiegano questa politica comunicazionale dei sequestratori. Per un verso, ostentare l’elenco dei superstiti significherebbe scoprire i numeri relativi agli altri, cioè gli uccisi, probabilmente notevoli. Nonostante la buonissima stampa di cui godono quegli aguzzini – che possono sparare nella testa a sei ragazzi confidando nel fatto che la notizia duri tutt’al più qualche ora, come infatti è successo – è evidente che almeno un conato di esecrazione si registrerebbe se fosse reso pubblico quanti altri ne hanno ammazzati.

Per altro verso, lasciare i numeri nel vago permette ai sequestratori di continuare a usare gli ostaggi come strumento di tortura psicologica delle famiglie e come arma contro Israele, specie in un quadro internazionale assai proclive ad addebitare la sorte dei rapiti a quelli che non sono ancora riusciti a liberarli piuttosto che a quelli che li trattengono dal 7 ottobre dell’anno sorso.
Se tuttavia il terrorismo palestinese si sente tanto libero di comportarsi in questo modo (anche su quest’ultimo annuncio ha trionfato una franchissima indifferenza generalizzata) è perché dalla cosiddetta comunità internazionale non è mai venuto nessun serio monito nei confronti di chi rivendica come legittimo strumento di “resistenza” il rapimento di centinaia di persone – uomini, donne, vecchi e bambini compresi – nonché il fatto di poterle tenere sequestrate, torturandole e ammazzandone un po’ alla volta.

Che gli ostaggi fossero la divisa ufficiale del mercato che si conduceva sulla loro pelle, sarebbe potuto essere soltanto un progetto dei terroristi, e invece quella moneta ha trovato libero corso ogni qual volta la liberazione dei sequestrati non è stata posta quale condizione sovraordinata a ogni possibilità di soluzione del conflitto. Che si trattasse di una risoluzione dell’Onu o di un parere della Corte Internazionale di Giustizia, di un comunicato all’esito di un vertice internazionale o della dichiarazione di questo o quel ministro o presidente del presunto mondo libero, mai a Hamas è stato ingiunto di liberare gli ostaggi con qualche promessa di ritorsione in caso di inottemperanza. Si è fatto semmai il contrario, sostanzialmente accreditando la pretesa dei sequestratori di liberare gli ostaggi – peraltro un po’ alla volta, e ovviamente senza nessuna garanzia su quanti, appunto, sarebbero ancora in vita – subordinatamente al ritiro dell’esercito israeliano da Gaza o a richieste palesemente inaccettabili come la rinuncia al controllo del corridoio di confine con l’Egitto.

Procede dunque su un sontuoso tappeto di legittimazione internazionale la politica terrorista di Hamas, davvero poco impensierita dal routiniario e inefficace appello alla liberazione degli ostaggi, un ritornello che salva la coscienza di chi, una riga prima e anche una riga dopo quella stanca reiterazione, spiega che il 7 ottobre non viene dal nulla, che bisogna fermare il genocidio e che bisogna arrestare Netanyahu.

La realtà è che sia la sorte dei sequestrati – palesemente deprezzata – sia la responsabilità dei sequestratori – affogata nel solito calderone divagatorio e contestualizzante – definiscono l’ennesima specialità di un Paese, Israele, destinatario come nessun altro al mondo di un simile pregiudizio. Perché a nessun altro Paese al mondo si chiederebbe mai di accettare che propri cittadini, presi in ostaggio e mantenuti in cattività per oltre un anno, siano pedine di un gioco amministrato dai rapitori mentre il pubblico assiste equanime al giro della roulette.