Gran parte del pianeta, nei giorni astratti e stralunati che stiamo vivendo, giace in una sospensione attonita, non distante da quella rievocata nel 1827 con piglio irripetibile dal Leopardi delle Operette morali: al punto che rileggere oggi il Dialogo di un folletto e di uno gnomo può far scorrere qualche brivido sulla pelle di ognuno. Piccolo rapido sunto: lo spirito dell’aria e quello delle caverne intrecciano battute sarcastiche sulla scomparsa dell’uomo dalla terra, di cui egli a torto credeva di essere il signore. E invece la natura continua a fare il suo corso senza di lui, allo stesso modo di questa nostra cocciuta eterna primavera, come se niente fosse: il sole si leva e si corica sempre nella vecchia maniera, le albe si susseguono ai tramonti, gli animali non smettono di moltiplicarsi, luci e stelle sono ancora lassù, anche se la razza umana non c’è più.

Per fortuna noi ci siamo ancora: resta da chiedersi a cosa stiamo pensando ora che abbiamo così tanto tempo a disposizione. Alcuni pensionati che, prima della sventurata pandemia, usavano riunirsi a metà mattinata sotto casa per parlare di calcio seduti in panchina, adesso sembrano in crisi d’astinenza. Ieri l’altro ne ho intravisto uno scendere furtivamente per andare a comprare il giornale sportivo che, appena fuori dall’edicola, già sul marciapedi ha cominciato a sfogliare in modo compulsivo. Il campionato di serie A è fermo a tempo indeterminato, così come la Champions e le altre coppe europee, i giocatori si allenano sulla cyclette, i presidenti delle società cercano di sistemare i bilanci, Sky si lecca le ferite… D’accordo, qualcosa da leggere lo troveremo sempre, come accade d’estate quando impera il calciomercato, ma resta forte l’impressione che il grande giocattolo del pallone, nella sua trama fantastica collettiva, sia stato requisito da un’entità superiore.

Ultrà, il bel film di Francesco Lettieri, racconta la drammatica funzione compensatoria che può avere lo sport, arrivando a presidiare stabilmente la vita delle persone. A chi voglia approfondire questo aspetto consiglio la lettura di due classici narrativi americani: Appunti di un tifoso di Frederick Exley e Il gioco di Henry di Robert Coover.
Tuttavia la riflessione a cui voglio giungere trascende la dimensione sportiva e chiama in causa la responsabilità di quanti contribuiscono a edificare lo spazio vuoto del nostro immaginario. Costretti al muro della solitudine informatica, ci siamo resi conto del valore insostituibile della relazione personale; ma questo non è sufficiente: dovremmo anche capire quanto sia rischioso che altri la rappresentino per noi. Nelle condizioni estreme della povertà sociale a cui il virus ci sta riconducendo, possiamo percepire meglio i fondamenti essenziali. Stiamo attenti a non dimenticarlo.

E cerchiamo di registrare tale consapevolezza, in modo che non venga cancellata in futuro dagli sketchs del piccolo schermo: che possa almeno restare sullo sfondo, dietro alle rovesciate di Cristiano Ronaldo, i “Posti al Sole” e la bicicletta di don Matteo, insomma tutte le vecchie sagome televisive già pronte ad essere sostituite dalle nuove “Case di Carta” e dalle “After Life”. Certe sicurezze, economiche e psicologiche, che pensavamo inattaccabili, punti fermi inamovibili, sono invece, questo l’ammonimento di oggi, sempre in bilico. È bastato un semplice accenno, durante un’intervista, di Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, riguardo alle modalità e ai tempi di pagamento delle pensioni statali, per far sentire la scossa a milioni di cittadini. Se trema anche il mitico welfare del Bel Paese, allora è peggio del terremoto: cedono i muri delle case spirituali. E chissà che non siano proprio i topi fuggiti dal Titanic a impartirci la vera lezione dei maestri che abbiamo troppo spesso trascurato.

Non possiamo considerarci padroni del mondo: in tale prospettiva la preghiera di Papa Francesco nella piazza deserta di San Pietro, forse l’inquadratura che più di tutte resterà nei manuali di storia, intercetta persino la coscienza del non credente, proprio nella suggestione leopardiana della superbia umana da sconfiggere. Così lo Gnomo anticipa di due secoli la dichiarazione del pontefice: «Essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli». Dobbiamo quindi tornare a studiare l’antica scienza delle reciproche interdipendenze, sottraendo la “fratellanza” ad ogni manipolazione ideologica. Ci sono altre parole da riverniciare: ad esempio, non è forse il sentimento comunitario delle nostre giornate recluse, cresciuto come una pianta selvaggia sul crinale dell’abisso, l’unica credibile forma di “patriottismo” che ancora possiamo concederci?

Il coronavirus, come l’amazzone dipinta dal Doganiere Rousseau nel quadro La guerra, in camice bianco che impugna la spada e cavalca il puledro volando sui morti aggrovigliati, azzera ogni altro argomento riportando tutto alla radice vitale primaria che sentiamo minacciata. Già adesso possiamo dirlo, è stata una strage, non solo dei corpi, anche delle menti: che non potranno più essere uguali a prima. Come non percepire la strumentalità di molti dibattiti che hanno animato le più recenti stagioni? Eppure dobbiamo restare fiduciosi: non tanto per noi, quanto per chi verrà dopo. In particolare il compito della scuola, quando le aule riapriranno, sarà quello di mettere a frutto la consapevolezza di coralità cresciuta finora, nel tentativo di ritrovare le ragioni meno effimere del nostro stare insieme.