L'appello del Papa
Futuro dopo il coronavirus? Solo se riscopriamo la fraternità
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Ecco le domande, per tutti: credenti, non credenti, credenti in altri modi. A cui aggiungerne una terza: che senso ha il periodo che stiamo vivendo? Papa Francesco ha spiegato il significato delle prime due domande a partire dal brano del Vangelo di Marco letto venerdì pomeriggio nell’apparente vuoto del Sagrato di Piazza San Pietro. Apparente, perché riempito dalle ansie di un contesto storico difficoltoso. Vale la pena di rileggere insieme il passaggio del Vangelo di Marco.
«In quel medesimo giorno, venuta la sera, (Gesù) disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”» (Mc. 4, 35-41).
In mezzo alla tempesta i discepoli hanno paura. Gesù è con loro, è tranquillo e dorme a prua, ma ai discepoli non basta, vengono sopraffatti dalla più umana e inquietante delle emozioni: la paura. Papa Francesco a partire dal Vangelo è andato dritto al cuore del problema. E ha notato: «Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: “Che tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti».
Certo si potrebbe dire che il messaggio del Papa è per i credenti. Per chi crede è facile accettare la sofferenza, il dolore, la prova. È davvero così? Non è così! Il credente non è chiamato a soccombere nella sofferenza. Semmai – ed è l’esempio di Cristo – pur di amare gli altri, pur di spendere la propria vita per gli altri, non ha timore di accettare di soffrire. E chiunque pensa che il «coronavirus» sia una «prova» mandata da Dio? Direi che bestemmia. Anche per una semplice ragione: può forse il Padre Eterno, che privilegia i più deboli, punirli nello stesso tempo con una pandemia che coglie le persone più fragili? Semmai il Padre Eterno, in questo tempo, sta nelle corsie degli ospedali, negli istituti per anziani, tra le pareti di casa delle persone sole….ed anche corpo a corpo nelle piccole celle delle carceri, come pure nei campi profughi di Lesbo e negli altri paesi in guerra scomparsi dalla scena… Dio sta lì.
E, comunque, Dio non ha tregua nel combattere il Male: vuole con tutto se stesso che i suoi figli stiano bene, tutti; vuole che riscoprano di essere suoi figli e quindi tutti fratelli e sorelle tra loro. Il ‘coronavirus’ – talora Dio sa trarre il bene anche dal male – ce lo sta facendo riscoprire. Da secoli il cristianesimo ci dice che siamo fratelli. E anche la Rivoluzione Francese, pur contro la Chiesa ma non contro il Vangelo, lo scoprì. Anzi ne fece uno dei tre colori della sua bandiera. E, purtroppo, proprio la fraternità è la promessa mancata della modernità. Non che l’uguaglianza e la libertà stiano in salute! Ma per lo meno di loro due si parla. La fraternità è scomparsa. Ecco, Papa Francesco è tornato a parlarne. O meglio a vivere questa fraternità universale. È questo il senso straordinario che sta a fondamento della sua preghiera in Piazza San Pietro. Il primo dei fratelli – è questo il senso del primato petrino – si è posto davanti a Dio, da solo, ma con tutti.
C’è anzitutto una lezione per noi. Ci ricorda che il cristianesimo non vive per se stesso, vive per rendere tutti gli uomini fratelli, nella indispensabile diversità, come accade in tutte le famiglie del mondo. Anche i gemelli sono diversi. Ma tutti appartenenti all’unica famiglia umana. L’individualismo ci ha fracassati, disconnessi, proprio mentre ci connetteva. Ed eccoci gli uni contro gli altri. Ciascuno pensa di stare nella sua barca. No! La barca è una sola. Come il pianeta è uno soltanto; e una soltanto è la famiglia dei popoli; e anche la vita è una soltanto. Certo, nella barca puoi stare a prua, a poppa o nella stiva; ma tutti devono avere il posto alla tavola comune.
La Chiesa – sempre e con papa Francesco in maniera insistente – ricorda che la fraternità è l’unica prospettiva per una convivenza pacifica tra i popoli. Non c’è vita se ci combattiamo gli uni gli altri. Non c’è vita se costruiamo muri tra di noi. Non c’è vita se lasciamo la barca grande per stare ciascuno nella sua piccola scialuppa. Dio non sta nella bagarre dei conflitti violenti siano essi sociali, politici, economici, culturali o peggio religiosi. In quest’ultimo caso sarebbe una bestemmia che grida vendetta. Ecco, in Piazza san Pietro, Papa Francesco era il “fratello universale” del pianeta.
E ha sentito questa sua responsabilità. Non è fuggito, non si è ritirato. È uscito – proprio mentre non possiamo mostrarci fisicamente vicini – per mettersi davanti a Dio. E dirgli, a nome di tutti: “Non t’importa che noi moriamo?”.
Non lo ha detto per sé, non lo ha detto per i suoi fedeli, l’ha detto per il mondo intero. Stava lì, anziano umile, tra Dio e il suo popolo. Venerdì sera non ha fronteggiato l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Ha fronteggiato il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino. Ha scritto un mio amico, mons. Pierangelo Sequeri: «Guardo il Papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi». E viene in mente il passaggio biblico che racconta di Mosé che contrasta Dio che aveva deciso di punire il suo popolo a causa del vitello d’oro (a proposito di punizione!). Mosé arriva a dirgli: “Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti”. Un vero “capo” arriva a questo.
In verità a presiedere quella preghiera del venerdì era Gesù, il Capo reale della Chiesa. Quel crocifisso che è uscito di nuovo dopo cinquecento anni per salvare non solo l’urbe, ma anche l’orbe, il mondo; quell’ostia nella quale è presente Cristo che si spezza per gli altri, ha come portato nell’insondabile mistero di Dio l’intercessione di papa Francesco. In un momento di straordinaria angoscia, di frenetica paura, il semplice gesto dell’intercessione, che supplica Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che anche noi non lo faremo, è un gesto che non ha prezzo. È giuramento di fedeltà che ha ricomposto quella sera l’intera umanità. Facciamo bene a “fissare” quella immagine. Non spostiamoci!
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