La prospettiva di una globalizzazione che, lasciata solamente alla sua dinamica spontanea, tende ad accrescere e approfondire le diseguaglianze, contro ogni giustizia di prossimità responsabile e di sussidiarietà comunitaria, sollecita un profondo ripensamento etico del legame sociale. Dobbiamo affermare con forza che, senza l’adeguato sostegno di una concezione cooperativa della vita umana, nessuna regolazione puramente giuridica e nessun ausilio tecnico potranno, da soli, garantire condizioni e contesti relazionali corrispondenti alla dignità della persona.

Un’emergenza come quella del Covid19 – è chiaro per tutti, ormai – si sconfigge anzitutto con gli anticorpi della solidarietà. I mezzi tecnici e clinici del contenimento devono essere integrati da una vasta e profonda complicità con il bene comune, che dovrà contrastare la tendenza alla selezione dei loro vantaggi per i privilegiati e alla separazione dei vulnerabili in base alla cittadinanza, al reddito, alla politica, all’età.

In caso contrario la dignità della persona andrà persa insieme con la preziosità dei suoi affetti. La scienza non deve cedere al sovranismo o alla pressione politica; la scienza deve allearsi con la solidarietà e l’umanità. Viviamo in tempi in cui nessun governo, nessuna società, nessun tipo di comunità scientifica, devono considerarsi autoreferenziali. Come diceva Papa Francesco nel 2018 alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita – parole che oggi dobbiamo riscoprire – la «bioetica globale ci sollecita dunque alla saggezza di un profondo e oggettivo discernimento del valore della vita personale e comunitaria, che deve essere custodito e promosso anche nelle condizioni più difficili». Quanto sarebbe importante che le decisioni dei governi – penso all’Europa, ma non solo – si prendessero in maniera coordinata. È urgente, direi indispensabile, un tavolo comune.

Nei tempi del Covid19, l’altro è il mio alleato: oppure la comunità evapora e io stesso sono perso. L’altro è la persona che cammina e mi saluta ad un metro di distanza perché tutela me e sé stesso; ed anche io stando in casa e rispettando le indicazioni delle autorità sanitarie, agisco in favore del bene comune, per fare in modo che tutti insieme e il prima possibile usciamo dall’emergenza. Facciamo in modo di non dimenticare l’esperienza di queste settimane difficili e il significato profondo delle limitazioni al muoversi: ci sacrifichiamo per noi stessi e per gli altri.
Ora appare definitivamente chiaro che questo obiettivo non è affatto il semplice effetto di un algoritmo degli interessi e di un calcolo dei vantaggi.

Esso comporta il potenziamento di una logica sociale dell’affezione reciproca, che il cristianesimo, fin dalle sue origini, ha concepito come fraternità universale e ha interpretato come prossimità responsabile fra tutti gli esseri umani. Per i cristiani è un’indicazione di comportamenti che sono impressi a caratteri di fuoco nella scrittura evangelica. Ci sono sembrate metafore di buoni sentimenti, invece vanno prese alla lettera come puri e semplici fondamenti della vita comune: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato…ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,35-40).

La fraternità indicata dal Vangelo si può moltiplicare con molti altri passaggi e messaggi diretti di Gesù. Ma per noi oggi, credenti e non credenti, è il momento di compiere un passo in avanti: siamo interconnessi; il mondo è interconnesso e prima riusciamo a comprenderlo, prima saremo una vera comunità globale riunita sotto il segno della fraternità. È un messaggio per noi vescovi, per gli scienziati, per i ricercatori, per i politici, per gli imprenditori, per i «nuovi ricchi» e per i «nuovi poveri», per tutte le persone di ogni fede e appartenenza politica, sociale, culturale. Il sacrificio che stiamo compiendo ci indirizza sulla strada della solidarietà e della fraternità tra tutti gli esseri umani, senza distinzione. Tocchiamo con mano San Paolo nella Lettera ai Galati: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3,28).

La Pontificia Accademia per la Vita è decisamente su questa strada, con la sua rete di accademici, nel promuovere una visione di «bioetica globale». La vita si difende e si sostiene riaffermando e agendo in modo che sia potenziato il diritto di ciascuno ad una esistenza degna. La sfida è di portata cruciale: dobbiamo essere capaci di attrezzarci, anche culturalmente, per trasformare la nostra resilienza in una opportunità epocale, che ci persuada, una volta per tutte, della necessità di prendere congedo da uno stile individualistico, inospitale e anaffettivo, dei nostri legami: affettivi, economici, politici, istituzionali.