C’era una volta lo Stato liberale, quello organizzato attorno all’idea che nel rapporto tra i Cittadini e l’Autorità siano i primi a meritare attenzione e tutela, perché si sa: l’Autorità, in quanto tale, tende talvolta ad essere autoritaria. C’era una volta la consapevolezza che, sebbene la struttura organizzata dello Stato aspiri, almeno nei regimi democratici, a essere strumento di garanzia del vivere ordinato e secondo i ritmi scanditi dal diritto, nondimeno essa cammina sulle gambe di donne e uomini che la incarnano, i pubblici ufficiali, i quali possono a volte essi stessi restar vittima di quella sorta di fascino che acquista il diritto al potere quando soverchia il potere del diritto.

Il potere di coercizione

È per questo che, muniti da un lato di poteri extra-ordinari di coercizione (anche fisica) sui restanti consociati, i pubblici ufficiali devono, dall’altro lato, essi stessi riconoscere limiti utili a mantenere tutto questo nel podere intercluso della forza controllata e necessaria. D’altro canto, quegli stessi poteri implicano specularmente, oltre al rischio fisiologico di sbagliare, anche quello di eccedere incolpevolmente nel loro uso, dando strada a rimbrotti, in concreto più o meno giustificati, ma quasi sempre costosi in termini di tempo, serenità, danaro. La tutela, dunque, è necessariamente un’erma bifronte.
Disegnata così – meglio: tagliata così con i colpi d’ascia che la brevità impone – la questione si mostra allora assai complicata, essendo intuitiva la profondità del discernimento che occorre per controbilanciare la forza di un potere con il limite al suo utilizzo. Sennonché, si fatica a trovarlo questo discernimento. È un apparato normativo, per quanto disorganico e polimorfo, che si mette a fattor comune sul pensiero di rafforzare il ruolo, il potere e le tutele del pubblico ufficiale, corrispondentemente dissuadendo, con il divieto penale e la conseguente sanzione, ogni forma di pur pacifica reazione della collettività. E colpisce che tale flusso (contro) riformatore accresca la sua portata proprio in coincidenza con quei settori di esercizio del potere pubblico che declinano come possibile e lecito l’uso della forza di coazione fisica e, per sovrammercato, in rapporto a categorie di individui accomunate da una immanente condizione di soggezione pressocché assoluta al potere statuale: i detenuti.

Profilazione legislativa

Nessuno ha spiegato a cosa queste norme possano servire nella prospettiva di uno sviluppo liberale della vita collettiva, mentre appare abbastanza nitida la matrice culturale e politica di cui esse sono figlie, che è quella stessa che inasprisce irrazionalmente le pene per i reati esistenti e si lambicca a crearne di nuovi e inutili, parcellizzando le condotte umane in subcategorie asfittiche che, se un risultato otterranno, sarà inevitabilmente quello di rinnegare la vocazione generale e aperta della struttura del precetto penale, sminuzzando mediante incomprensibili criteri di specialità le azioni, moltiplicandone mediante una sorta di profilazione legislativa i possibili autori e comprimendo gli spazi del concreto apprezzamento umano sulle condotte oggetto di attenzione. Qui non torna niente, insomma: non si scorge un progetto razionale se non quello che si innerva sull’idea della repressione purché sia; non c’è un’idea degli obbiettivi e nemmeno dei risultati potenziali delle scelte legislative, perché non c‘è alcuna considerazione per l’impatto delle norme sul tessuto sociale né per la sorte di chi, suo malgrado, ne sarà destinatario. C’è solo, sembra di capire, la voglia di lanciare tonitruanti anatemi legislativi con cui contrastare pretese quanto inesistenti emergenze sociali, ammannite – qui da noi anche molto tempo dopo le campagne elettorali – da narrazioni distorte che sembrano fatte per indurre al rimbrotto, alla lagnanza, al malcontento che genera disaffezione. E, stavolta possiamo dirlo, anche un po’ alla paura.

C’era una volta il discernimento

Di queste, come di altre riforme, pagheremo tutti il prezzo nei lustri a venire, poiché il danno legislativo ha la tendenza a radicarsi autoalimentandosi, come dimostra il fatto che di alcune delle più scellerate riforme del governo gialloverde in tema di giustizia non ci si riesca ancora a liberare, sebbene unanime sia il coro che le avversa (leggi: prescrizione). Ma per alcuni, non riesco a non dirlo, il prezzo sarà precoce e più salato, perché costoro leggeranno nella riforma in atto la morte dell’ultima possibilità di far uscire dai luoghi angusti e marcescenti in cui vivono anche un composto dissenso. Sono i detenuti, le cui fila peraltro, proprio in ragione di questa visione sfocata dei temi e delle implicazioni, si ingrosseranno al suono di nuove denunce, di nuovi delitti, di nuove aggravanti, di nuove ostatività. Come se Santa Maria Capua Vetere e Trapani non fossero mai esistite. C’era una volta anche il discernimento, insomma.