Il 12 giugno prossimo il corpo elettorale viene convocato “ad referendum”, dunque per esprimersi su cinque quesiti abrogativi di norme vigenti, il cui esatto – ma anche più generico- contenuto è noto ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori e di cittadini appassionati della giustizia penale e dell’ordinamento giudiziario. Un numero di persone infinitamente inferiore al quorum (metà degli aventi diritto più uno) richiesto per la validità dell’esito elettorale.

Siamo di fronte ad una congiura del silenzio, o ad una iniziativa politica improvvida? Che il nostro istituto referendario sia solo abrogativo, richieda cinquecentomila firme validamente raccolte e poi munite, ciascuna di esse, del relativo certificato elettorale che i promotori sono chiamati a procurarsi da soli in giro per tutti gli 8mila comuni italiani, è circostanza ben nota a chi decide di farsene promotore. Che il raggiungimento del quorum presupponga necessariamente ab origine una dimensione popolare dei quesiti proposti, cioè di ampia condivisione e comprensione, nella pubblica opinione, delle questioni con essi affrontate, è premessa addirittura ovvia di un accorto ragionamento politico.

Ciascuno di noi saprà valutare se questa iniziativa politica oggetto del voto del prossimo 12 giugno abbia tenuto nel giusto conto queste basilari premesse. Certo è che ancora ci chiediamo, anche noi che ci orientiamo discretamente tra quei quesiti, e che di quei problemi ci occupiamo da una vita sia per ragioni professionali che di impegno politico ed associativo, quando, dove ed all’esito di quale dibattito o confronto, e tra chi, sia maturata la scelta di quei quesiti, la loro stesura tecnica, e la composizione politica del comitato promotore. Domanda legittima, visto che -dio non voglia- i costi politici di un eventuale insuccesso saranno addebitati e pagati ben oltre il ristretto perimetro dei proponenti. E qui, per il momento, mi fermo. Ma la congiura del silenzio, volta ad impedire il raggiungimento del quorum, resta in tutta la sua evidente, allarmante gravità, costituendo una emergenza democratica che nessuno può seriamente confutare.

Innanzitutto, e prima che sul silenzio, occorre ritornare sull’esito dei giudizi di ammissibilità, che hanno falcidiato esattamente i tre quesiti più popolari, i quali avrebbero determinato se non la certezza, almeno la altissima probabilità del pieno raggiungimento del quorum. Eutanasia e droghe leggere avrebbero scatenato inevitabilmente un grande dibattito pubblico, portando alle urne ampie fasce di elettori magari non altrettanto interessati ai quesiti sulla giustizia. E tra questi ultimi, la dichiarata inammissibilità di quello sulla responsabilità civile del magistrato, popolarissimo (“chi sbaglia, paga”, sarebbe stato lo slogan irresistibile), ha completato il quadro di una mutilazione che è francamente assai difficile non considerare chirurgica.

Ora, i quesiti residui affrontano temi assai meno popolari di quelli eliminati, ma comunque di grande rilievo per la qualità della vita sociale e civile del Paese. È giusto che il diritto di elettorato passivo debba essere pregiudicato da una sentenza di condanna non definitiva (legge Severino)? Non è uno scandalo che un magistrato che abbia fatto il PM per una vita possa diventare a proprio piacimento, chessò, Presidente di sezione della Corte di Cassazione (separazione delle funzioni)? Non è odiosa la pretesa che gli avvocati, pur presenti nei Consigli giudiziari, non debbano esprimersi sulla professionalità dei magistrati il cui operato osservano quotidianamente? Non è forse l’abuso della custodia cautelare uno dei più gravi malanni che affliggono la giustizia penale nel nostro Paese? Ed anche sul sistema elettorale del CSM, non è un male che l’opinione pubblica possa dire la sua.

Sta di fatto che il dibattito non decolla, certo anche per imprevedibili contingenze internazionali che assorbono ormai quasi esclusivamente l’attenzione dei media. Ma le stesse forze politiche teoricamente schierate per il SI sembrano assai poco impegnate, quando non addirittura defilate, anche per ragioni di equilibri e di strategie elettorali non sempre nobilissime. In ogni caso, l’assenza della informazione da parte del Servizio Pubblico Radiotelevisivo è un autentico scandalo, e non ha, non può avere giustificazioni di sorta. Se quella nozione di Servizio Pubblico avesse ancora un senso, dovremmo vedere da qui al voto un quotidiano martellamento di informazioni, approfondimenti, dibattiti, che sono semplicemente doverosi nei riguardi dei cittadini elettori. Il venir meno di questa funzione di informazione pubblica è un vulnus mortale al diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati su una scadenza elettorale così importante. Altrimenti, l’esito elettorale sarà inesorabilmente falsato, e falsato sarà il dibattito politico che ne conseguirà. Dunque, ora rimbocchiamoci le maniche, sollecitiamo con forza la RAI a fare il proprio dovere, e lavoriamo tutti per il SI. I bilanci politici si faranno a tempo debito.

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