Il Consiglio dei Ministri ha deliberato le date per le elezioni amministrative nelle regioni ordinarie e per il referendum sulla giustizia, stabilendo l’accorpamento di quest’ultimo con il primo turno (il famoso election day). I giorni prescelti sono: domenica 12 giugno per il primo turno e a domenica 26 giugno per i ballottaggi. Si vota dunque in un solo giorno. La legge per le elezioni comunali prevede che il “turno annuale ordinario” si svolga infatti “in una domenica”. Ugualmente per i referendum la legge del 1970 (art. 34) prevede che il referendum si svolga in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Il governo non poteva, allo stato della legislazione vigente, decidere diversamente. Avrebbe dovuto, semmai, come accaduto in passato, derogare a quelle previsioni con un decreto-legge. In effetti non si è sempre votato in un solo giorno. Anzi, se si guarda alla serie degli ultimi 20 anni, si scopre che, sia per le amministrative che per i referendum, si è votato molte più volte in due giorni (domenica e lunedì) che in un giorno solo. I casi più recenti sono quelli legati all’emergenza Covid. Non solo per le amministrative nell’ultimo biennio si è votato in due giorni, ma addirittura sia nel 2020 (d.l. n. 26) che nel 2021 (d.l. n. 25/2021) le elezioni sono state rinviate dalla primavera all’autunno.

La scelta del governo, come si diceva, non può essere criticata in punto di diritto. Non ci si può nascondere però che alcuni interrogativi sorgano sul piano dell’opportunità politica di una simile scelta. Innanzitutto, malgrado la fine dello stato di emergenza, la situazione epidemiologica non può dirsi attualmente rientrata nella normalità. Non lo si può dire in via di fatto, visto che il virus continua a colpire. Ma non lo si può dire nemmeno sul piano giuridico. Per alcune categorie, ad esempio gli operatori sanitari o per l’accesso alle Rsa l’obbligo della vaccinazione resterà fino al 31 dicembre. Per tutti, la campagna vaccinale continuerà e, anche quando non obbligatoria, la somministrazione rimarrà fortemente raccomandata.

In secondo luogo non si può certo ritenere che la nostra democrazia viva una fase di intensa partecipazione. I dati sull’affluenza alle urne continuano a scendere in picchiata tanto da far registrare molto spesso una partecipazione al di sotto del 50 per cento degli aventi diritto. Basta ricordare Roma e Milano nelle ultime comunali.
Inoltre, come detto, il 12 e il 26 giugno saranno due domeniche, nelle quali è verosimile che dopo un biennio di restrizioni sotto l’ipoteca del virus, cui si è aggiunta l’angoscia per gli eventi bellici che riempiono quotidiani e televisioni, la propensione ad “andare al mare” dei cittadini, finalmente liberi dalle restrizioni più frustranti, sarà certamente non inferiore a quella del passato. E, diremmo, anche, legittimamente dopo due anni e mezzo così. Aggiungiamoci pure che il 12 giugno è la prima domenica dopo la chiusura delle scuole…

Ripetiamo. La scelta del governo è perfettamente legittima, ma forse lo stesso governo o la sua maggioranza potrebbero fare di più per aprire la finestra temporale e dunque favorire una maggiore opportunità di partecipazione per chi lo voglia. Lo si è fatto tante volte in passato. Perché rinunziare proprio oggi? E magari prestare il fianco al sospetto di chi ritiene che tutto ciò sia, alla fin fine, un modo per ostacolare il raggiungimento del quorum nei referendum sulla giustizia?. Ne vale la pena?