C’ è stato il tempo in cui il salario, la dinamica salariale, sono stati non solo elementi decisivi nell’economia politica, ma anche, direttamente, la misura delle politiche economiche dei governi e delle imprese. Dimmi qual è la condizione salariale delle lavoratrici e dei lavoratori e io ti dirò qual è il grado di civiltà del lavoro del paese in quel tempo. Quello è stato il tempo del Movimento operaio, ne ha segnato le fasi di ascesa quanto quelle delle sconfitte. È stato il salario la posta in gioco della prima tra le riforme sociali, la sua centralità nella vita di milioni di persone è potuta diventare un fatto politico di prima grandezza.

La riscossa studentesca ed operaia, partita dal biennio ’68- ’69 in Italia, ha attraversato gli interi anni Settanta e si è connessa direttamente con un processo storicamente significativo di liberazione del e dal lavoro salariato, e quindi si è connesso con la questione del potere nei luoghi di produzione e nella società. “Il potere deve essere operaio”, scandiva uno slogan che ha accompagnato quel ciclo del conflitto sociale, e non impropriamente. Concretamente, infatti, la questione salariale si è venuta connettendo con la condizione lavorativa e con la critica di massa dell’organizzazione capitalistica del lavoro. Era la base materiale di una politicizzazione del conflitto del suo intrinseco connotato riformatore. La centralità del salario si dava in un processo che poteva (avrebbe dovuto) mettere in discussione gli assetti generali di quella determinata società capitalistica. Restò celebre la manifestazione di questa consapevolezza sul fronte della restaurazione in una dichiarazione di Guido Carli, governatore della Banca centrale.

Rivolgendosi alla borghesia del paese gli disse sostanzialmente che avrebbe dovuto scegliere tra due alternative, seccamente: o mettere sotto controllo la dinamica salariale e continuare a governare l’economia e la società, oppure disporsi ad accettarla, ma allora disponendosi altresì ad accettare un radicale cambiamento dei loro assetti e dei rapporti di potere tra le classi. La gigantesca ristrutturazione capitalistica, messa in atto su scala mondiale dopo la sconfitta del Movimento operaio alla fine del secolo, ha generato il rovesciamento del conflitto di classe secondo l’appropriata formula di Luciano Gallino. Il lungo ciclo socialmente regressivo di un capitalismo estremamente dinamico ma vocato alle crisi non è ancora finito. La terza guerra mondiale a pezzi investe, insieme al nostro tempo, il nostro mondo. Nella globalizzazione capitalistica subentrano così altre e impreviste variabili. Resta intatta e soverchiante, da allora fi no ad oggi, una costante: il salario è diventato la variabile dipendente del sistema. Il lavoro è stato trasformato progressivamente nel ventre molle del sistema stesso, da comprimere corvéable à merci nella crisi per creare le basi della ripresa e nella crescita per ottimizzare la competitività delle merci prodotte. Occultata, nascosta dal pensiero egemone, sta proprio qui la causa prima delle diseguaglianze, del drammatico accrescimento delle diseguaglianze nel mondo, in Europa, in Italia.

Da noi, il livello intollerabilmente basso delle retribuzioni ha consentito che le povertà fin qui tenute fuori dai confini del lavoro vi siano penetrate tanto in profondità da configurare un intero sistema di lavoro povero. Esso sprofonda nel mare della precarietà, del lavoro nero, del mancato rinnovo dei contratti. In Italia, peggio che altrove. Oggi da noi si guadagna meno di trent’anni fa, tranne per chi sta in alto nella piramide del lavoro, pochissimi. Tutti gli altri stanno sempre peggio. Prima della pandemia, i salari italiani si erano abbassati, durante la pandemia, condizioni di lavoro e retribuzioni sono drasticamente peggiorate. Nella fuoriuscita da esse, nel tempo della grande ripresa annunciata, nel tempo del Pnrr, tanti lavoratori sono stati espulsi dalle fabbriche e tanti lavoratori sono ancora senza rinnovo contrattuale, e tantissimi senza alcun contratto. Nel tempo invaso dalla guerra, ora esplodono gli aumenti dei prezzi, delle tariffe, e i lavoratori sono da tempo senza un’adeguata tutela delle retribuzioni, dall’inflazione che ora è ripartita pesantemente. La situazione per tanti da difficile si fa intollerabile, ma nella politica tutto tace, o quasi.

Dei recenti provvedimenti del governo non è il caso di farvi cenno, tanto sono insignificanti. E se Landini dice parole di buon senso in difesa dei lavoratori, le stesse parole non vengono considerate o sono considerate sostanzialmente inaccettabili, non solo dal capo della Confindustria che lo fa con la voce del padrone, ma anche dal governo. Mentre i salari precipitano, mentre la perdita del loro potere d’acquisto è intollerabile, mentre un’area crescente di lavoratori non ha alcuna tutela contrattuale e altre ne è negato il rinnovo, si perpetua intanto lo scandalo dell’indifferenza di chi governa, del suo costante rinvio di fronte ai problemi di chi fatica a ricavare dal suo lavoro la fonte di un sostentamento. Il governo è parente stretto del conte zio. Se è vero che anche Draghi di fronte al porsi drammatico della questione salariale, come quello, dà luogo a “un parlare ambiguo, un tacer significato, un restare a mezzo… un non parlare, un lusingare senza promettere, un minacciare a cerimonia”. Oggi, in particolare, tutto ciò è ancor più insopportabile dopo la relazione della commissione parlamentare sul lavoro, relazione consegnata il 21 aprile scorso, una relazione che denuncia “paghe indegne e caporalato in ogni settore, dalla ristorazione alla logistica”.

Ci vorrebbe allora, al contrario, un governo che scegliesse da che parte stare, memore invece che del conte zio di manzoniana memoria, di quel ministro democristiano che all’inizio degli anni Settanta disse: “Non sono il ministro del Lavoro, sono il ministro dei lavoratori”. Ci sono tempi in cui la colpa più grave è non prendere parte, perché vuol dire che si continua a stare dalla parte del torto. Questa colpa del governo attuale va denunciata con nettezza per poter guadagnare una strada radicalmente diversa da questa. Al contrario, pensare di stare in questo quadro, peggio rispolverando passi come quella della concertazione, non fa che farci sprofondare sempre di più nel pantano. Tra l’altro, si dovrebbe ricordare che l’atto di nascita della concertazione in Italia nel 1992 fu così sciagurato da portare alle dimissioni del Segretario generale della Cgil, che peraltro si chiamava Bruno Trentin, e che uno dei suoi protagonisti più intelligenti e capaci, Pierre Carniti, ne denunciò tutti i guasti prodotti dal prolungamento della concertazione. Altro che concertazione, dunque, cioè controllo dei salari. Bisognerebbe riconquistare al sindacato il suo essere autorità salariale. Bisognerebbe conquistare una svolta nelle politiche distributive ed economiche del governo.

Bisognerebbe progettare un fronte ampio di lotta per cominciare a rovesciare il rovesciamento del conflitto di classe e per guadagnare, nel conflitto sociale e nella contrattazione, una dinamica salariale per soddisfare i bisogni sociali delle popolazioni lavorative, spezzando il dominio delle compatibilità subalterne e per i lavoratori perdenti. Bisognerebbe. Ma intanto è matura, stra-matura una rottura con il recente passato e con il cattivo presente. Il salario minimo è diventato una necessità assoluta, una necessità sociale inderogabile. Ogni ritardo diventa complicità con una situazione intollerabile. Il governo e il Parlamento vanno messi drasticamente di fronte alla necessità di una scelta urgente. Se non ora, quando? si dovrebbe dire ancora una volta. Dieci anni fa, era il 2012, 200 lavoratori (si pensi 200 lavoratori!) dei fast-food di New York scioperarono per ottenere il salario minimo di 15 dollari l’ora. Era la scintilla. Nacque da lì un movimento che ha invaso città americane e non solo, un movimento che tende a diventare mondiale. Negli Usa, come sappiamo, in alcune realtà ha già sfondato. Potrebbe, il potente sindacato italiano, imitare la scelta di quei 200 lavoratori newyorkesi?

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.