“Avevo paura, paura da morire. Mi sembrava di essere davanti a un tribunale militare, non a colloquio con il mio primario. Ne sono uscita distrutta”. Parole pesanti come macigni che una delle sei ginecologhe informate sui fatti ha ripetuto più volte davanti al gip Enrico Borrelli in fase di incidente probatorio, richiesto dalla procura di Trento per capire se e quando ci furono maltrattamenti e abusi dei mezzi di correzione da parte dell’ex primario Saverio Tateo e della sua vice Liliana Mereu all’interno del reparto di ginecologia e ostetricia del Santa Chiara ai danni di 21 tra medici, infermieri e personale sanitario. Tra le presunte parti lese anche Sara Pedri, la ginecologa forlivese di 32 anni di cui non si sa più nulla dal 4 marzo dell’anno scorso subito dopo il trasferimento dall’ospedale di Trento a quello di Cles da cui si era dimessa 24 ore prima della sparizione.

Sotto la lente dunque la stessa unità operativa dove per tre mesi ha lavorato Sara. La famiglia della ginecologa da subito ha denunciato un clima di grande tensione che sussisteva nel reparto tanto da poter aver portato Sara a compiere il gesto estremo di lanciarsi da un ponte nel Lago di Santa Giustina. Una situazione che la stessa Sara aveva raccontato a parenti e amici nei mesi. Quei messaggi ricostruiscono l’inferno che Sara aveva nell’animo. “Sono una morta che cammina. Questa volta non ce la farò”, ha scritto in uno dei suoi ultimi messaggi. E ancora più agghiacciante il messaggio scritto al papà: “Chiedo scusa io a voi per la delusione che vi ho procurato”.

Come riportato dal Corriere della Sera, il mese scorso la mamma di Sara ha affidato tutto il materiale raccolto alla psicologa Gabriella Marano. Dalla perizia di 119 pagine che è venuta fuori dall’attenta analisi, emerge l’immagine di “un agnello in mezzo ai lupi, sbranata dalla violenza di chi si è avventato contro di lei”. Emerge che Sara sia stata vittima di “quik mobbing” cioè “comportamenti vessatori frequenti e costanti, posti in essere con lo scopo e l’effetto di violare la sua dignità di donna e lavoratrice e di creare intorno a lei un clima intimidatorio, ostile e degradante”. Per questo motivo la giovane ginecologa sarebbe piombata nel dramma più totale.

E per la perizia non ci sono dubbi sul fatto che “quell’ambiente di lavoro malsano ha indotto Sara a vivere un dolore estremo che, nella sua mente, era diventato intollerabile, insopportabile, inaccettabile. Tanto che la morte è diventata per lei sollievo e serenità”. E conclude: “Il supertestimone di questa cronaca appena esposta è proprio lei, Sara, che ha parlato attraverso gli appunti lasciati in casa, le e-mail inviate e non, le telefonate, le confidenze, gli sfoghi, le lacrime versate con le persone a lei più care, e soprattutto attraverso le migliaia e migliaia di messaggi e di vocali che coprono intensamente gli ultimi tre anni della sua vita. Tutto quanto appena scritto rappresenta in questa vicenda la Stele di Rosetta, la cui attenta decifrazione ha riportato alla luce, scolpito nella roccia, il decreto di morte di Sara”.

Tutto questo avrebbe scoperchiato il vaso delle vessazioni in reparto e spinto anche altri colleghi a denunciare quel clima. “Decisi di registrare il colloquio con il telefonino. Una mia collega era uscita dal faccia a faccia con il primario molto provata. Perché i colloqui? Li aveva organizzati con tutti i dipendenti del reparto che avevano sottoscritto una lettera contro i turni di lavoro. Lui a tratti urlava, poi assumeva un tono glaciale”. Parla senza tentennamenti una delle sei ginecologhe informate sui fatti, come riportato da LaPresse, davanti al gip Enrico Borrelli in fase di incidente probatorio, richiesto dalla procura di Trento. Ma l’ex Primario ha sempre respinto le accuse di questo tipo: “Mi hanno descritto come un mostro che non sono”, ha detto in una recente intervista a La Stampa.

In una lunga intervista alla Stampa ha deciso di dire la sua perché scosso dall’essere accusato per mesi di essere un mostro. “Nei mesi precedenti ero così traumatizzato che non riuscivo nemmeno a leggere le carte che mi riguardavano”, ha detto nell’intervista a La Stampa. “Non sono aggressivo, sono una persona piuttosto severa, amo il rigore perchè nell’ospedale il rigore è fondamentale”, ribadisce. Tateo ha affermato che “la dottoressa Pedri ha ricevuto da me tutti i riguardi che sono dovuti a una giovane professionista che, lasciato pochi giorni prima l’ambiente comunque protettivo dell’università, si è trovata a dover fronteggiare i ritmi e le esigenze della corsia e della sala operatoria”. “Se qualcuno mi avesse esposto i suoi problemi, avrei risposto, non scappo da nessuna parte”, aggiunge ancora l’ex primario.

“Era una specialista da poco tempo, la sapevo sola in Trentino e per di più durante la seconda ondata di Covid. Per questo le avevo dato dei turni che la lasciavano libera i fine settimana e i festivi. Nei 59 giorni in cui è rimasta in reparto aveva fatto due sole notti, di cui una in sostituzione di una collega che si era ammalata – dice Tateo al giornale – Ho avuto poco tempo per conoscerla meglio, perché è rimasta con noi poco, poi è andata a Cles, la prima sede di ospedale che aveva scelto”.

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Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.