Farebbe quasi ridere, se non ci fosse da piangere, ascoltare i vari piagnistei con cui quasi tutti si dolgono dell’eccessiva dipendenza collettiva dai social. Giornalisti, psicologi, politici, intellettuali vari e avariati si percuotono il petto gridando alla superficialità di una generazione, quella più giovane, che, avendo a modello gli influencer (nuova categoria reietta, ennesimo capro espiatorio italiano del momento), si produce in atti orribili al solo fine di diventare famoso, sia pur online.
E giù a ricordare inorriditi il tempo di permanenza medio di 15 secondi degli utenti, che significa restringere ogni contenuto all’elementare, quando non al demenziale.

I casi Lucarelli di questi giorni, e prima di Ferragni-Fedez, sembra mettano in crisi una figura, quella di chi influenza (tradotto: chi fa opinione o moda) il pubblico. Che però -ci sarebbe da dire- è tale per propria autonoma, libera scelta, ed è spesso composto non solo da chi si addita, ma anche da parecchi di noi, che conferiscono al personaggio di turno tutto il potere che altrimenti non avrebbe.
Ma questa considerazione per me tautologica e assai banale si scontra con l’approccio, anch’esso da social, di chi fa le leggi in Italia. E che per ogni fatto di minima cronaca pensa subito a spararla grossa, di solito proponendo una legge restrittiva, cosi un po’ a casaccio, proprio perché spera di sfondare egli stesso sui social che dipinge come peggiore dei mali.

Ma l’idea di soddisfare con una legge una fenomenologia che si critica solo perché produce fatti di cronaca è essa stessa figlia della logica che si critica. Nascono da qui alcune norme del tutto inutili, come l’omicidio nautico, o gli inasprimenti di pena proposti, quando il problema sarebbe l’efficacia della pena già prevista. Perché è quella logica che si critica, a ispirare una reazione simile. Quella di chi, in 15 secondi, possa comunicare a una platea che egli per primo assume essere inebetita, che: “Da oggi, pugno di ferro contro chi sbaglia qui in rete”, con ciò proseguendo sulla via della politica da pensierino, anziché da pensiero.

Ed è quella stessa ambizione di popolarità che si assume essere adolescenziale e immatura (quando riguarda gli altri) a muovere invece adulti giornalisti e debunker a indagare con fretta e precipitazione la fondatezza di fatti di costume anche irrilevanti purché’ facciano tendenza, per decretarne la legittimità o il fatto che la immediata notorietà generata sia invece usurpatoria e dunque da condannare. Cosa fa tendenza online? Cosa tracima nel mondo nostro? Bene, ci vado sopra anche io in modalità Torquemada, cosi resterò illuminata da una vicenda popolarissima che nel giudicare mi porta attenzione.

Meraviglioso poi che la croce venga buttata addosso solo ai giovanissimi. Sulle varie app di dating non ci sono i giovanissimi, ma quelli un po’ più grandi, con l’obiettivo di selezionare chi conoscere un po’ come si sceglie un prodotto al supermercato. E con un’aggravante in più: che i giovani escono da anni di solitudine comminatagli dagli adulti nel momento in cui la loro socialità chiedeva di poter dare tutto gas. Chi ha mortificato l’esuberanza di una generazione con anni di lockdown e semi lockdown, obbligandola a sopravvivere proprio online, teatro di cui oggi ci si duole, mentre godeva di minor libertà di movimento di un cane, che in pandemia almeno poteva uscire con la scusa di dover fare pipì..?
Inutile lamentarsi dei social cui ci si conforma persino quando da leader politici si preferisce apparire follower, e che invece sono solo un mezzo, come tale neutro, la cui colorazione negativa o positiva dipende esclusivamente da chi ne fa uso. Che però è stato educato, o non educato, da noi adulti. I social sono lo specchio della nostra società in cui fluttuano i fallimenti delle famiglie, della scuola e dei loro prodotti, conformati a un’educazione che -forse- anziché soluzione e’ problema. La mela non cade quasi mai troppo distante dall’albero. Altro che fare altre leggi, solo per comunicare di averne fatte.