Non è Internet a uccidere. Né i social. Ogni mezzo di comunicazione, per quanto rivoluzionario, non fa altro che veicolare la volontà e le parole di individui. Di esseri umani, in carne e ossa, nonostante si tenda, spesso per santificante deresponsabilizzazione, a voler pensare che quando accediamo a una qualche piattaforma la nostra essenza corporea si smaterializzi in una aura azzurrognola e con essa scompaiano responsabilità e, soprattutto, umanità. In attesa che le indagini chiariscano la tragedia della morte di Giovanna Pedretti, titolare della pizzeria finita al centro di un tritacarne digitale e mediatico, quel che rimane è il gusto amaro di un sensazionalismo, prima, e di un moralismo, poi, che ambiscono a gettare ogni colpa su Internet, sul modo di comunicare nell’epoca del virtuale. Ci arriva, invece, una storia di esseri umani. Di umane fragilità e di altrettanto umani egoismi. Non di silicio. Non di piattaforme o algoritmi. Quella recensione prima mediaticamente elevata a paradigma di un bene assoluto da una stampa a corto di autentiche notizie, ideologizzata, alla spasmodica ricerca di conferme ai propri punti di vista e poi vilificata con enfasi belligerante, quando tutto sembrava franare, la dice molto lunga. Non sul digitale ma su chi nutre sempre un tragico, narcisistico bisogno di scovare o peggio costruire casi nazionali o demolirli, facendo ricadere sulle spalle di singoli esseri umani le conseguenze quando le vicende si rivelano improbabili o non veritiere o comunque inservibili per quanto si voleva dimostrare.

Adesso, lascia intristiti leggere la granitica certezza eternata da Paolo Berizzi in un suo pezzo sotto il titolo “Cliente”, inizio della slavina. Gli interventi dei politici, subito a ruminare e a pasturare per la loro agenda legislativa e polemica. L’interesse da goccia che scava, morboso, reiterato in ogni singolo istante. E poi, sul fronte in apparenza opposto ma del tutto analogo e comunicante, lo chef Lorenzo Biagiarelli improvvisatosi debunker e la compagna Selvaggia Lucarelli a dar manforte. E le telecamere del TG3 spiaggiate dietro la Pedretti, come chissà quale rivelazione potesse saltarne fuori. Tutti a commentare, analizzare, decostruire, proporre all’attenzione nazionale vicende che, senza quel doping sovrastrutturale profuso da loro stessi, non avrebbero rivestito importanza alcuna. Vicende che, semplicemente, non erano casi nazionali ma solo magari dei maldestri e piccini tentativi di pubblicità da lasciar fuori dal perimetro delle “notizie”. Pratiche commerciali scorrette, forse. Su cui si sarebbero dovute pronunciare, al limite, le autorità competenti, e non certo i crociati della pubblica morale. Quelli che, lo sentiamo ripetere spesso, lo fanno per ristabilire la verità. Fiat veritas et pereat mundus, per parafrasare un celebre motto latino. Ma nessuno, in nessun tempo e in nessun luogo, ha nominato queste voci manifestazione mistica della verità rivelata.

Non abbiamo bisogno della loro verità in un caso di originario nessun interesse trasformato in tragedia nazionale per spicciolo narcisismo di chi ha gozzovigliato sul caso e adesso viene a menarcela con la verità. Il rumore di fondo montante e la tempesta che si levano nella improvvisa, non meditata, popolarità e nelle lodi e nelle critiche, feroci le une come le altre, hanno conseguenze. Pratiche, vive, umanissime. Ricordatevelo. Possono arrivare a distruggere una esistenza. O anche più di una, come ricorda la figlia di Giovanna Pedretti, straziata dal dolore, in un duro sfogo contro Selvaggia Lucarelli nel quale sottolinea quanto pericoloso sia l’accanimento. Certo, si dirà con piglio giustificazionista; non sappiamo quali problemi pregressi potessero esserci. Si minimizzerà, si andranno a contare i post avversi con tono di contabilità emotiva, si affrescheranno quadri rassicuranti e rasserenanti trincerandosi dietro comode scuse, come quella sul non poter certo silenziare giornali e social. Ma qui non è questione, solo, di presunte shitstorm, di aggressioni digitali; in considerazione viene proprio quella popolarità eretta, e poi smantellata, in fretta e furia da un sistema mediatico incapace di fare il proprio lavoro. Di un giornalismo ridotto a citizen-journalism virato alle luci dello spettacolo, che vende le vite come figurine di un album da completare. Un fast-food accelerato che pastura a getto continuo non-notizie, opinioni in luogo di fatti, moralismo al posto di commenti strutturati, show in assenza di verifiche e dati accertati.

Non c’è bisogno di una etica dei social o di Internet, quando ad aver smarrito qualunque etica e qualunque senso di responsabilità sono proprio quelli che dovrebbero maggiormente insegnare continenza, contegno dubitativo e riflessione. Non serve alcuna legge per far comprendere a chi si reputa custode della fiamma della cultura, della verità e della civiltà che prima di macinare le ossa, prima di gettarsi in un debunking che non ha alcun senso perché non va a incidere su una vera notizia ma su un dato costruito dal sistema mediatico stesso, sarebbe essenziale fermarsi a riflettere, riesumando tutti quegli strumenti del fornire informazioni che contraddistinguono la formazione della cultura. Quando si raccoglievano le fonti, i dati, ci si ragionava sopra, scervellandosi, non cedendo alle lusinghe della accelerazione esasperata, tendente alla cecità, del voler arrivare prima di tutti e di far montare il “caso”. Il valore, irrinunciabile, dei silenzi, delle pause, del meditare sulle conseguenze di quanto si dice e di quanto si scrive.

Di guardarsi dentro e chiedersi se davvero si stia fornendo una notizia o se invece, più probabilmente, non si stia solo indulgendo in sciatto narcisismo.