Secondo i sondaggi, la fiducia nella magistratura è calata dal 68 al 39% in dieci anni. Ne deriva la necessità di ricucire il rapporto tra giudici e cittadini. Da magistrato, voglio subito comunicare che questa frattura è percepita da me e da migliaia di colleghi come me in modo molto doloroso: siamo arrivati a un punto di pericolosa incomunicabilità, potenziale preludio di riforme mal pensate e peggio attuate. La magistratura “normale”, che non siede in posti di particolare prestigio e potere, probabilmente si sente accerchiata da una comunicazione e da una informazione che suonano comunque “contro”. La politica, dal canto suo, non mi pare ad oggi portatrice di una visione chiara e autorevole sulla giustizia. Gli altri poteri dello Stato, poi, sembrano piuttosto fermi in una posizione attendista (il 2022 è alle porte).

Occorrono due premesse. La magistratura non può, senza tradirsi, mettersi a fare “campagne pubblicitarie di immagine”. Essa ha bisogno di silenzio come gli essere umani dell’ossigeno. In un mondo che comunica tutto a tutti 24 ore al giorno, capirete che acquistare credibilità in silenzio è terribilmente difficile. Diciamo pure impossibile. Inoltre, ogni presa di posizione della magistratura può minare le uniche cose che contano: le sue indipendenza e imparzialità. In questo quadro, bisogna però trovare un modo che funzioni opportunamente per rappresentare alla società civile ciò che noi magistrati siamo e facciamo, nel bene e nel male, nella nostra vita lavorativa ordinaria. Il mio parere è che oggi siamo a un punto in cui il ritorno di credibilità è possibile soltanto attraverso una comunicazione nuova, nuova sia per provenienza (non i soliti nomi, non le solite “strutture”), sia, soprattutto, per stile e contenuti.La magistratura potrà vincere la partita del confronto alto con la società civile se saprà dirsi e dire alcune cose in modo semplice, diretto e autorevole. Quali cose stanno a cuore a moltissimi magistrati e, probabilmente, a numerosissimi cittadini in ugual modo? Il problema del potere della e nella magistratura attiene principalmente alle Procure della Repubblica. Bisogna trovare controlimiti effettivi a questo potere. Basti pensare a quello che oggi sta accadendo sempre e ancora attorno alla Procura di Roma. Controlimiti che noi magistrati dobbiamo suggerire alla politica con grande chiarezza.

I meccanismi di rappresentanza associativa hanno portato al trionfo dell’appartenenza correntizia come primo motore immobile di quasi tutti gli accadimenti dentro la magistratura. Non è forse giunto il momento che queste correnti, con gesto coraggioso e di vera libertà, esse stesse si sciolgano, ammettendo il fallimento degli ultimi venti anni almeno e la necessità di ricominciare da zero? Tutti i magistrati sparsi tra ministeri et similia dovrebbero ritornare subito nei loro ruoli. E chi non vuole, dovrebbe avere il coraggio di cambiare mestiere. Sarebbe un segnale potente di verità effettivamente perseguita e realizzata.

L’eccessiva durata dei processi dipende in minima parte da inefficienze interne ai meccanismi decisionali e processuali. Noi fronteggiamo una domanda di giustizia endemicamente sovradimensionata. La pappa riscaldata che vuole in una maggiore efficienza quantitativa la guarigione della giustizia malata è una menzogna stupida, eppure va per la maggiore: se non si comincia a sconfessarla dati e idee alla mano, ce la troveremo somministrata a forza come ineludibile panacea. La meritocrazia in magistratura è un concetto necessariamente specifico e va declinato tenendo conto dei requisiti di indipendenza e imparzialità che sono ciò che soltanto davvero conta in uno Stato di diritto attento al rispetto delle libertà. Il merito del magistrato è quello di decidere ciò che va deciso, in un modo tecnicamente appropriato ma soprattutto indipendente e imparziale. Oggi siamo sottoposti a una pioggia di piccoli meriti organizzativi da ceto impiegatizio, che mortificano la funzione. E al contempo a insidie interne ed esterne a quella imparzialità e a quella indipendenza.

Ma come e chi deve oggi parlare alla società civile della magistratura italiana? La magistratura stessa, i singoli magistrati. Non gli onnipresenti in tv (a meno che abbiano cose coraggiose e sincere da dirci). No, deve poter trovare una sua voce la magistratura “normale”. Con una duplice consapevolezza: che la credibilità purtroppo è incrinata e che a molti giova che il vetro stia per infrangersi. A molti che, probabilmente, non sono soltanto fuori dalla magistratura. La credibilità, dunque, non nasce solo da forse illusorie rigenerazione etiche (frasario degno di una ambientazione sovietica di quel Vasilij Grossman che vedete nella foto), ma dall’esercizio quotidiano della giurisdizione indipendente e imparziale, e dalla civile conversazione, dal racconto intorno a ciò che noi magistrati siamo e facciamo, e a ciò che vogliamo essere e fare nel futuro.

Un racconto che nella società della iper-comunicazione deve trovare la sua forma, sobria, pacata, incisiva: un racconto fondamentale per una città come Napoli, dove la credibilità della magistratura gioca evidentemente un ruolo non sostituibile. Ma giornali, tv, radio, politici e le stesse rappresentanze istituzionali e associative della magistratura italiana vogliono sentirla davvero la voce della magistratura diffusa? Perché è vero che a noi magistrati serve una sincera, spietata autocritica, ma al resto della società civile serve comprendere in tutta onestà se davvero vuole ascoltare in buona fede e senza pregiudizi, o se ha bisogno di un momentaneo capro espiatorio da bastonare e tacitare.