Spesso capita di leggere un libro per caso, perché hai letto da qualche parte qualcosa che ti ha incuriosito, perché un amico te ne ha parlato (viva il passaparola!), e per fortuna spesso va bene. Così, ecco una piccola scoperta, questo «Il cavallo» di Willy Vlautin (tradotto da Gianluca Testani per l’Editore Jimenez), romanzo americano che più americano non si può. C’è la musica, innanzitutto, perché il protagonista (Al Ward, 65 anni) vive per la musica in uno stato di totale isolamento. E ci sono due grandi protagoniste della letteratura americana: la solitudine e la memoria.

Una mattina – fuori dal suo rifugio – appare un vecchio cavallo, derelitto e accecato da una malattia agli occhi, incapace di difendersi dagli attacchi dei coyote: «Otto anni fa mi trovavo in una strada sterrata nel centro del Nevada con un vecchio amico, Brian Foster. Eravamo a 50 chilometri da Tonopah e si avvicinava il crepuscolo quando ci imbattemmo in un cavallo selvaggio nel bel mezzo del deserto». Nel Nevada, a 1800 metri di altitudine, a 50 chilometri dal ranch più vicino, tormentato dall’alcolismo e dall’ansia, Al – che deve decidere cosa fare per se stesso – prende un’altra decisione: salvare l’esausto animale che si è presentato alla sua porta, mentre i ricordi della sua vita da cantautore e chitarrista si fanno sempre più insistenti, dai primi passi sulle pedane dei bar e dei casinò e poi oltre, in un crescendo di piccoli successi e occasioni mancate.

Perché convivere con una band e trascorrere gran parte del tempo in tour può essere logorante, e molti dei suoi amici e compagni non ce l’hanno fatta a tenere il passo. In questo strano intreccio di solitudini – il cavallo cieco, il vecchio Al – la storia di quest’ultimo acquisisce il tono del blues triste che si trasforma in una toccante riflessione sulla solitudine, sulla forza d’animo e appunto sulla musica come salvezza. Romanzo semplice, minimalista, profondo. Siamo in piena America, ci siamo capiti.