La connessione
Parole sincopate e note d’inchiostro, il legame tra letteratura e jazz
Alcuni romanzi hanno la stessa forza di un assolo di sassofono di John Coltrane e l’imprevedibilità del piano di Thelonious Monk
Apri un libro e ascolta le parole come se fossero note, sentile nella tua testa. Gira una pagina e leggila come uno spartito e fatti trascinare in un irrefrenabile ritmo jazz. Infatti, alcuni romanzi hanno la stessa forza di un assolo di sassofono di John Coltrane e l’imprevedibilità del piano di Thelonious Monk. E già 101 anni fa gli undici Racconti dell’età del jazz di Francis Scott Fitzgerald (bellissima l’edizione Minimum Fax, 2020) mette in scena tutta la frenesia dei Roaring Twenties e swing sincopato dei belli e dei dannati, delle utopie e delle illusioni, delle proibizioni e delle lascività. Una metafora della dicotomia dell’animo umano rivelata da uno dei racconti più celebri della raccolta: Il curioso caso di Benjamin Button. L’autore della bibbia del jazz nel 1924 si trasferisce a Parigi con Zelda, ed è proprio tra la Francia e l’Italia che la bellissima e anticonformista Alabama Beggs, protagonista del libro Lasciami l’ultimo valzer (Bollati Boringhieri, 2008), concluso solo nel 1932 da Zelda Sayre Fitzgerald, viaggia assieme al marito e aspirante pittore David Knight. Ma viaggia alla ricerca di un sogno, il ballo, per fuggire alla banalità dell’infelicità. L’inquietudine di Zelda Fitzgerald non è un fatto convenzionale, la felicità di Alabama si infrange nella consapevolezza dei sensi, della sensualità come realtà inappellabile quale è la vita per mettere a tacere i propri demoni.
Nel 1925 Zelda e Francis Scott conoscono Hemingway a Parigi. Scott è già un autore di successo, mentre Ernest una notte di luglio del 1918 sul Basso Piave si è beccato le schegge dell’esplosione di una bombarda austriaca Minenwerfer, dopo la guerra lavora come corrispondente in Europa dove ha seguito la guerra tra Grecia e Turchia, è un autore esordiente e sperimenta un nuovo stile narrativo che chiama iceberg, che ben si sposa con colui che quell’anno pubblica Il grande Gatsby per il suo piglio secco, breve, millimetrico e minimalista, sotto la cui superficie si nasconde tutta l’ansia della Lost generation. Nei racconti e nei romanzi, Hemingway utilizza “said” (past simple di “to say”, tradotto in italiano “dissi/disse”) alla fine delle battute dei dialoghi come il charleston di una batteria con il quale tiene il tempo della narrazione incalzante e ipnotica. Le ripetizioni di parole anche in Fitzgerald sono pattern, ovvero piccole unità melodiche o ritmiche.
Fiesta (Mondadori, 2016) è il primo romanzo. Pubblicato nel 1926, è il ritratto cupo e gioioso, feroce e lascivo, di un gruppo di espatriati britannici e statunitensi che da Parigi percorrono il Cammino di Santiago e si fermano Festival di San Fermín a Pamplona. Quell’anno lì nasce Miles Davis, trombettista e compositore nel 1960 di Sketches of Spain (Original Master Recording), disco ad immersione in un “mondo sonoro quasi sinfonico, quasi jazz”, come è stato definito da Stephanie Stein: arrangia assieme a Gil Evans brani della musica colta e della musica popolare spagnola, un Third Stream, ovvero una sintesi tra la musica classica e la musica jazz, che rimarrà alla storia. Zelda, invece, è tutto un altro stile, tutta un’altra interpretazione del modernismo, molto europeo nel suo caso, ricco di iperboli lessicali e un uso della lingua piegato all’uso dei sensi e della storia. È una big band jazz alla Duke Ellington. Vuole ballare l’ultimo valzer ma ha suonato la prima nota jazz.
“Il jazz ha sbaraccato il valzer, l’Impressionismo ha sbattuto via la luce da studio, scrivete ‘telegrafico’ non scrivete più niente! Tocca a voi capire! Emozionatevi”, ha affermato Louis-Ferdinand Céline nella prefazione di Guignol’s band (Einaudi, 1996), iniziato nel 1937 e pubblicato nel 1944 a pochi mesi dalla fuga da Parigi, il romanzo che rappresenta l’esorcismo della sua giovinezza che doveva andare a comporre una trilogia assieme a Mort à crédit e Casse-pipe. Lo stile di Céline è gutturale, frenetico e verticale. Non si balla più come nello swing, ci si fa travolgere dalla velocità del ritmo, dagli acuti, nuove forme di cromatismo e armonie sofistiche ma rudi. È il bebop. Dizzy Gillespie, Bud Powell, John Coltrane, Thelonious Monk, assieme a Céline, hanno ispirato gli autori statunitensi della generazione successiva: Sono Jack Kerouac, che si definì poeta jazz, Allen Ginsberg e tutti gli altri bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo della Beat Generation.
A Kerouac è stato paragonato più volte Pier Vittorio Tondelli. La sua opera e la sua vita sono un tutt’uno con la musica. I libri attraversati dalle colonne sonore di un’intera generazione europea, oscena e oltraggiosa, sommessa e drogata. Ma negli anni ’80 i ritmi sono punk, rock, pop, elettronici. Del resto, già da tempo William Burroughs lavorava ai testi degli Stones e dei Nirvana. Così, ora chiudi il libro. Rimarrà il silenzio e il mondo fuori che urla. Ma quel ritmo jazz ancora ti trascina, perché anche nella quiete delle parole hai scoperto tutta la potenza irrisolta del puro suono.
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