Lo scaffale
Una vita da comunisti, aneddoti e testimonianze in “Fischiava il vento” di Claudio Caprara
«Il Festival di Sanremo entrava nelle case degli italiani, ma era giusto, da un punto di vista morale e politico, spendere migliaia di lire per un cantante? E soprattutto, poteva una festa comunista promuovere artisti che interpretavano canzoni prive di contenuto politico o culturale? L’interrogativo riguardava la musica leggera americana, definita da qualcuno “degenerata”: era accettabile darle spazio in un evento che doveva rappresentare i valori del Pci?». I comunisti italiani s’interrogavano anche così – diciamo, fine anni Cinquanta, il boom capitalistico che sì, andava bene, ma aveva pure sempre qualcosa di moralmente sbagliato. Poi i cantanti arrivarono, per primo Claudio Villa che votava Pci, e poi tutti, ma davvero tutti gli altri, nel 1985 a Roma suonarono addirittura i Clash… Di cose così ce ne sono molte in questo libro “sentimentale” e intelligente di Claudio Caprara, che di quella storia, seppure solo nella parte finale, ha fatto parte, “Fischiava il vento” (Bompiani).
La quotidianità dei comunisti
Dagli albori a Berlinguer, la costellazione di storie, aneddoti, dilemmi, gioie e tragedie che ha segnato la vicenda del Pci è qui tratteggiata con la forza passionale del ricordo e della suggestione delle testimonianze dirette: e l’accumulo di fatti tramandati, nella forte Imola dell’autore, riempie un forziere cui attingere a piene mani. In effetti, nel libro le parti più sostanziose sono quelle che riguardano la vita minuta dei “comunisti quotidiani”, come s’intitolava un vecchio filmetto di Ugo Gregoretti, le stanzette delle sezioni più o meno uguali fossero a Torino o a Palermo: disadorne ma piene di una vita autonoma e intensa.
La scuola
I simboli, poi. Ecco la villetta ottocentesca di Frattocchie, al chilometro 22 dell’Appia, prima dei Castelli romani, luogo forse troppo mitizzato eppure emblematico. Appena liberata l’Italia, il Pci s’inventa questa scuola che «doveva firmare una nuova generazione di dirigenti capaci di interpretare e guidare le sfide del Dopoguerra». E dunque, «sveglia alle sette, un po’ di tempo per la colazione, la pulizia personale e la lettura dei giornali, poi dalle otto lezioni e studio collettivo fino a mezzogiorno. Dopo il pranzo c’era una breve pausa, seguita dallo studio libero e da discussioni di gruppo. La sera, solo chi otteneva il permesso della direzione poteva passeggiare nei dintorni, magari fino a Castel Gandolfo».
La storia
A parte Frattocchie, la direttiva era di studiare. Ma anche di essere personalmente rigorosi, disciplinati, inattaccabili. Erano “requisiti” tipici dei rivoluzionari e dei resistenti ma la sostanza rimase anche nelle generazioni successive. E insomma, un comunista era un comunista, che diamine, di qui quella famosa “diversità” di cui tanto si è discusso e che era vissuta, dal grande dirigente fino all’ultimo iscritto, come un dato indiscutibile non solo della militanza ma anche della propria personalità. Togliatti e poi Berlinguer racchiudevano tutto questo, e i due funerali ne furono il clamoroso riconoscimento/ringraziamento, una grande liturgia laica e insieme mistica. Tutti i ritardi, le liturgie, i tic comunisti portavano anche a delle esagerazioni grottesche, e ad una estraneità rispetto all’incedere delle novità (il famoso esempio della diffidenza verso la televisione a colori!) che faceva del Pci qualcosa di diverso, nel bene e nel male, così aderente alla società eppure, spesso, così fuori tempo. In questo “Fischiava il vento” di Claudio Caprara si ritrovano tante cose di quella storia. Finita, certo. Di cui qualcosa, o molto, rimane.
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