Il 26 settembre di 80 anni fa, dopo un avventuroso tentativo di fuga dalla Francia occupata, moriva suicida Walter Benjamin (1892-1940). Di questo pensatore così scomodo e atipico vengono di solito messi in luce gli aspetti meno sovversivi e più assimilabili allo spirito del nostro tempo. Ma i tentativi di addomesticarlo da parte dell’accademia non impediscono alla sua opera di interrogarci da vicino. La sua marcata asistematicità, la sua attenzione per gli “scarti” del pensiero, il suo ostinato rifiuto di percorsi intellettuali codificati suonano per un’epoca come la nostra particolarmente stimolanti. Quei professori dell’Università di Francoforte che già nel 1925 non seppero capire il suo Dramma barocco tedesco (negandogli così la libera docenza) oggi sarebbero doppiamente spiazzati, in una fase storica nella quale ogni tentativo di condurre il pensiero in territori sconosciuti viene risolutamente negato.

Della dialetticità e dell’attualità dell’opera di Benjamin abbiamo parlato con Paolo Vinci, direttore della rivista Pólemos, membro del consiglio esecutivo dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e già professore di Filosofia pratica presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Vinci è tra i più profondi e raffinati interpreti di Benjamin, da sempre particolarmente attento alla dimensione trasformativa del suo pensiero.

“L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” è il testo di Benjamin più noto e studiato. Ad esso si deve certamente la tematizzazione di concetti di assoluta importanza – in particolare quello di aura – ma il suo tono teleologico e trionfalistico stride se lo mettiamo a confronto con l’impulso critico e utopico delle “Tesi sul concetto di storia”…
L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è stato al centro di una stagione della ricezione benjaminiana in cui il dibattito si è concentrato soprattutto su tematiche legate all’estetica e alla critica letteraria, durante la quale non si è forse valorizzato abbastanza il nesso profondo che c’è tra il Benjamin critico delle arti e il Benjamin filosofo in senso proprio. Quest’ultimo aspetto è maturato lentamente da più di un ventennio ed è oggi al centro della ricezione del suo pensiero. Come lei sottolinea, nel saggio sull’Opera d’arte ci sono aspetti molto importanti: non solo il discorso sulla tecnologia, sulle masse, ma soprattutto la nozione di aura, centrale in tutto il pensiero di Benjamin. Essa si collega ad altre nozioni come quella di memoria involontaria o di immagine dialettica e con queste forma una sorta di costellazione che rappresenta l’apporto più rilevante di Benjamin al pensiero filosofico. È dunque utile non sopravvalutare il saggio sull’Opera d’arte né concentrarsi solo sulle tematiche estetiche, ma cogliere quegli spunti che lo mettono in relazione con il resto del suo lavoro.

Uno dei motivi essenziali del pensiero di Benjamin è la forma con cui viene esposto, il registro poetico, allusivo della scrittura, quell’oscurità talmudica cui non è aliena una certa delicatezza, una certa dolcezza.
Apprezzo molto questo riferimento alla delicatezza – che è anche tenerezza – presente nella scrittura di Benjamin. Per approfondire questa questione rimanderei all’inizio della Premessa gnoseologica del Dramma barocco tedesco, in cui si parla del rapporto tra il pensiero filosofico e la scrittura. In essa Benjamin teorizza esplicitamente una “sobrietà prosaica” propria della scrittura che le consente di seguire la ritmica intermittente del pensiero. In questo modo è possibile quello che Benjamin, forse ispirandosi a Hölderlin, chiama un “prender fiato” sia del pensiero che della scrittura, cioè un andare al di là di una linearità e di un flusso unitario di pensiero che a volte è stato il contrassegno della filosofia. Il tema della cesura e dell’inversione controritmica di cui Hölderlin parla a proposito delle tragedie di Sofocle è una delle acquisizioni più profonde del pensiero di Benjamin. In queste sue espressioni c’è forse un’implicita presa di distanza da Hegel, che concepisce la dialettica come movimento immanente ininterrotto.

Il marxismo di Benjamin è stato accusato da taluni di fragilità teorica. Come rispondere a questa obiezione? E quali sono, secondo lei, i punti più interessanti del marxismo benjaminiano?
La questione del marxismo, del materialismo storico in Benjamin va sempre legata al rapporto con la teologia ebraica, come vediamo nella prima tesi sul concetto di storia. Ma proprio nel momento in cui leghiamo questi due elementi completamente opposti ciascuno di questi viene trasformato, approfondito e messo in questione…

Viene da pensare al “Frammento teologico-politico”…
Certo. In esso si dice che il messianico, la spinta redentiva debba essere un’interruzione e non un compimento: un fine inteso come Ende e non come Ziel. Credo che l’elemento più importante del marxismo di Benjamin sia l’idea di emancipazione, un’emancipazione che tuttavia non implica un soggetto forte che ha un progetto, una prospettiva finalistica e punta a un compimento. Benjamin mette in discussione la visione teleologico-trionfalistica che un certo marxismo ha avuto e ci consente di elaborare un grande rischio presente nella visione dell’emancipazione che c’era nel marxismo classico. Il discorso sulla fantasmagoria della merce è inoltre molto importante. Certo, Benjamin legge Marx attraverso Korsch ma coglie come nella società contemporanea il feticismo delle merci, il ruolo accecante della merce abbagliante e variopinta nasconda e contenga il lavoro non pagato, lo sfruttamento, l’oppressione.

Il modo in cui Benjamin si accosta al lavoro saggistico provoca e scandalizza il lettore di oggi: dalla sua multidisciplinarietà allo studio di diramazioni sconosciute della storia delle arti, come nel Dramma barocco tedesco; dalla micrologia e il gusto del frammento all’uso di categorie religiose. In un’epoca, come la nostra, in cui il saggio si è consegnato in tutto e per tutto alla razionalità formale, in cui il massimo dell’ideologia si accompagna ad una pretesa della massima obiettività, qual è il messaggio che l’approccio di Benjamin ci trasmette?
Credo che il lavoro micrologico e frammentario di Benjamin derivi da una certa concezione del rapporto tra le idee e i fenomeni: solo dal particolare, da ciò che è unico, da ciò che si dà di volta in volta è possibile ricavare dei discorsi generali. Si tratta cioè della rottura, tematizzata sempre nella Premessa gnoseologica, con una visione del concetto, dell’universale, e del rapporto universale-particolare più tradizionale. Dell’approccio di Benjamin al saggio va recuperata la nozione di critica. Il saggio è per lui l’esercizio di un atteggiamento critico che si rivolge sempre a un fenomeno, a un frammento perché è in grado di intensificare quasi in modo monadico ciò che affronta, cogliendone la profondità. Pensiamo, in questo senso, alla concezione che ha Benjamin dell’immagine.

Il pensiero di Benjamin è stato spesso impiegato per giustificare teorizzazioni postmoderne: un procedimento forzato, fuorviante.
Sono convinto che sia un’operazione del tutto errata. La stessa nozione di postmoderno intesa in senso generale mi lascia molto perplesso. Benjamin è un critico del moderno: egli afferma che viviamo in un’agonia raggelata, in un’epoca della fine che tende a non finire, a riprodursi continuamente e rispetto alla quale è necessaria un’interruzione, uno scarto, un momento di rottura. Ecco perché non considero Benjamin un pensatore postmoderno: perché è un pensatore della storia. Il messaggio più importante che ci dà è che anche il discorso sull’arte va inquadrato in una filosofia della storia, per quanto non intesa in senso classico. In Benjamin c’è un nesso molto preciso tra la tradizione e gli esiti di questa nel presente. La sua idea secondo cui nel presente rivivano aspetti mitici e quindi preistorici secondo me scalza qualsiasi lettura che, in chiave di teorizzazione postmoderna, tende a non vedere il problema della storia.

Qual è l’opera di Benjamin che secondo lei è più produttiva per il presente? O, in termini benjaminiani, qual è il suo testo per il quale è oggi scattata “l’ora della conoscibilità”?
Mi vengono in mente diverse opere, dalle Tesi sul concetto di storia, al secondo saggio su Baudelaire, al saggio su Kafka. Ma spezzerei una lancia per quello che considero il capolavoro di Benjamin, cioè il Dramma barocco tedesco. Nella Premessa gnoseologica ci sono delle indicazioni filosofiche generali che offrono un orientamento sul pensiero di Benjamin, nel resto del testo si condensa il discorso benjaminiano sulla redenzione come abbandono di un disegno provvidenzialistico, come un calarsi nell’immanenza. Il Barocco, ci dice Benjamin, sospende la trascendenza, si muove in una visione della storia come storia naturale – un concetto molto importante ripreso in parte anche da Adorno. Nel Dramma barocco tedesco c’è il rapporto tra allegoria e simbolo, tra dramma e tragedia, c’è un discorso sul linguaggio, sul rapporto con le cose. C’è dunque quella che possiamo considerare la filosofia di Benjamin.