Naploitation (Naples+exploitation) affronta il tema della napoletanità e legge criticamente, in particolare in polemica con Raffaele La Capria, quelle teorie che hanno affossato un immenso patrimonio culturale di cui fanno parte artisti come Gemito, scrittori come Di Giacomo e autori “piccoloborghesi” come De Filippo o “popolari” come De Crescenzo, per non parlare di politici come Lauro, demonizzati più che studiati.

Se Berlusconi è stato Trump prima di Trump, come dice Steve Bannon, cioè uno che se ne intende; e se Lauro è stato Berlusconi prima di Berlusconi, come dicono ormai quasi tutti gli storici italiani, allora non è difficile trarre le conclusioni: c’è stato un momento – a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso – in cui Napoli, di cui il monarchico Lauro è stato uno storico sindaco, si è portata avanti col lavoro. Era la direzione giusta? Per certi versi sì, per altri no. Ma di sicuro era la direzione in cui è andata l’Italia. La direzione dei partiti personali, e dei leader carismatici, come Bassolino e Berlusconi, appunto; come Romano Prodi e Antonio Di Pietro, come Umberto Bossi e Beppe Grillo, come Salvini e de Magistris. La direzione, ancora della seconda Repubblica, dei sindaci protagonisti, della comunicazione politica semplificata, delle comparsate in tv. La direzione dell’effimero culturale e delle estati romane poi diventate anche napoletane. E la direzione dell’antipolitica e del populismo dilagante.

Resta dunque il fatto che in quegli anni Napoli viaggiava nel futuro avendo già un leader carismatico, un partito personale, un sistema mediatico funzionale al progetto politico, un programma alternativo a quello statalista e industrialista, e un’idea di città basata su politiche per il turismo e lo spettacolo. Tutto ciò, fosse solo per l’esperienza accumulata, avrebbe potuto costituire una posizione di assoluto vantaggio. Invece, di quell’anticipo sui tempi nulla è rimasto. Addio politiche per il turismo e lo spettacolo. Addio napoletanità. Addio canzoni. Addio feste popolari. Addio industria cinematografica. Addio rimozione delle macerie urbane.

Così, non solo si è persa un’occasione, ma per il duplice effetto dell’enfasi popolare, da una parte, e della damnatio delle forze di opposizione, dall’altra, Lauro è uscito dalla storia ed è entrato stabilmente in una dimensione mitica: luminosa per alcuni, oscura per altri. La politica e la sociologia lo hanno liquidato come un ferro vecchio, la storiografia lo ha ignorato per decenni e il cinema lo ha colpito solo di striscio. Ad oggi, non c’è ancora un film su Achille Lauro: ce n’è uno sulla sua nave attaccata dai terroristi, e ce n’è un altro sulla speculazione edilizia in quegli anni, ma non c’è un film sulla sua vita discutibile, politicamente scorrettissima, ma certo avventurosa assai.

Io stesso sono stato assordato dall’eco di quella leggenda. Non so quante volte, ad esempio, mi è stata raccontata la storia delle scarpe elettorali. Si è sempre detto che Lauro le consegnasse spaiate, una prima del voto e una dopo. Ma per fare una cosa del genere, avrebbe dovuto anche stoccare migliaia di scarpe, e poi avrebbe dovuto tenere la contabilità, controllare seggio per seggio se davvero il possessore di una destra meritasse anche la sinistra. E quindi avrebbe dovuto organizzare magazzinieri, ragionieri, faccendieri e galoppini. Possibile? Analoga la storia delle banconote smezzate. Tagliarle, consegnarne solo una parte e consentire il ripristino dell’unita monetaria solo dopo il voto non era affatto facile: chi avrebbe provveduto a far combaciare tutti i numeri di serie? Possibile? Finché un giorno, per strane vie, mi sono trovato tra le mani un libro speciale: una raccolta di tutte le novelle di Pirandello. Quel vecchio volume con la copertina e le pagine ingiallite proveniva dalla libreria di Villa Lauro e tutto era tranne che intonso: le pagine di sicuro sfogliate e magari anche lette. Allora, ho pensato: vuoi vedere che ’O Comandante non era poi così rozzo e ignorante come da propaganda dell’opposizione? «Cosa volete che abbia letto!», diceva di lui Maurizio Valenzi, il primo sindaco comunista di Napoli. Ma fu poi una scoperta, per me, leggere cosa Lauro aveva detto ad Antonio Ghirelli che lo interrogava sulla napoletanità. Parlò di Napoli «nobilissima» esaltandone i figli illustri e non citò solo Pulcinella o Sarchiapone; né si limitò a evocare i Borbone, Scarfoglio, Ferdinando Russo, Serao e Di Giacomo, ma citò con orgoglio Gianbattista Vico, Filangieri e Croce, Scarlatti, Pergolesi e Mercadante, Luca Giordano, Solimena, Salvator Rosa e Morelli, Scarpetta e De Filippo. In effetti, la quantità di fake news che in quegli anni è stata rovesciata su Lauro ha dell’incredibile. Neanche Cambridge Analytica, oggi, sarebbe capace di produrne tante.

Silvio Gava, al governo nel 1957, nel suo diario racconta che pur di neutralizzarlo, ordinò di registrarlo segretamente durante un colloquio al ministero, e per questo fece piazzare un microfono in uno dei candelabri del suo studio. Ma il colpo durissimo arrivò con Le mani sulla città (1963), il film di Rosi sceneggiato da La Capria. Un film bello, bellissimo, ma che altera la realtà almeno tre volte. La prima, quando concentra lo sdegno su Lauro e lo indica come principale responsabile della speculazione edilizia, mentre è provato che il peggio venne dopo, al tempo dei commissari straordinari che presero il posto del sindaco. La seconda, quando assolve la Dc che quei commissari aveva nominato. La terza, quando esalta il ruolo ambientalista del Pci che fu sostanzialmente marginale.

In quegli anni la capitale italiana dell’urbanizzazione selvaggia era Rapallo. Qui, di fatto, era ambientato La speculazione edilizia, il racconto di Italo Calvino pubblicato lo stesso anno del film di Rosi, nel 1963; e rapallizzare era il verbo usato da giornalisti come Bocca, Montanelli e Cederna per indicare il fenomeno. Ma poi, anche per le proteste del Comune ligure, il termine fu cancellato dai vocabolari e dall’uso comune. A tutti non parve vero di poter liberamente “sparare” sulla Napoli di Lauro. Come simbolo sostitutivo della cementificazione, il Comandante calzava a pennello, e per giunta non aveva neanche difensori di ufficio.

Si è detto anche che la Napoli laurina fosse isolata e priva di classe dirigente. Non era proprio così. Totò inneggiò a Lauro a “Il Musichiere”, e la Rai lo punì tenendolo fuori dallo schermo per lunghi anni. «Votai Lauro, non me ne sono mai pentito, e sono repubblicano» ammise Giuseppe Marotta. E di «rinnovamento edilizio» e di «miglioramento dei servizi pubblici» parlò Curzio Malaparte. Mentre tra i napoletani eccellenti di quel tempo c’erano personaggi come Giuseppe Cenzato, presidente della Sme, e leader dell’Unione industriali, capace, insieme con Massimo Capuano e Alberto Beneduce, di trattenere Napoli nella rete degli interessi strategici internazionali.

Achille Lauro fu armatore, banchiere, editore (inventò la televisione commerciale molti anni prima di Berlusconi), costruttore e amico di costruttori rapaci; sventrò, per rinnovarla, l’area a valle dei Quartieri spagnoli; fece costruire lo stadio San Paolo, e come presidente del calcio Napoli, trent’anni prima di Maradona, portò in squadra lo svedese Jeppson, pagandolo allora 106 milioni. E come imprenditore mal sopportava le acciaierie e i nastri di laminazione, cioè l’industria pesante, perché preferiva quella leggera degli spettacoli di Piedigrotta (una volta, bruciando sul tempo de Magistris, fece innalzare un Pulcinella alto quanto la facciata di una villa in via Caracciolo) e i Casinò (lo voleva aprire a Sorrento ma non ci riuscì) e sognava una Cinecittà napoletana della mussoliniana mostra d’Oltremare. Distribuiva, è vero, pacchi di pasta in cambio di voti (ma non era il solo) e aveva modi diretti e guasconi: ad esempio, si arrotolava gli orli dei pantaloni per combattere il caldo anche nell’austera Sala dei Baroni del Maschio Angioino, dove si tenevano i consigli comunali, ma non era la maschera di cui parlavano gli oppositori liberali democratici e cattolici.

Non a caso, di lui è ancora vivo il ricordo. E non solo perché al Festival di Sanremo del 2019 è atterrato, quasi dal nulla, un concorrente che per dare nell’occhio ha deciso di chiamarsi allo stesso modo: Achille Lauro. Ma perché è proprio difficile, ormai, tenerlo fuori dalla storia di Napoli e da ogni discorso sulla napoletanità. Per dire. Lucio D’Alessandro, rettore dell’Università Suor Orsola Benincasa, ha scritto una raccolta di racconti dedicati a Topolino e in uno di questi ha immaginato un viaggio dell’eroe disneiano nella Napoli contemporanea. Veniamo così a sapere che un giornale aveva commissionato un sondaggio su quali erano i personaggi più popolari a Napoli. Topolino, proprio lui, era secondo solo a Maradona. Il governatore e il sindaco in carica, invece, giacevano imbarazzati sul fondo della classifica. L’unico sindaco entrato in graduatoria era, guarda caso, il vero Achille Lauro, il quale – scrive D’Alessandro – «a leggere la stampa nazionale del suo tempo (Topolino se l’era letta per farne un film) doveva essere invece una specie di pirata. Tutti ne parlavano male ed era ancora ricordato come il migliore. Come poteva essere?». Intanto è accaduto.

Il primo a studiare Lauro in modo “scientifico” è stato Percy Allum, con un’inchiesta sociologica (Potere e società a Napoli) pubblicata in Inghilterra e poi, nel 1975, tradotta in Italia. A quel tempo, Allum aveva un’aria imbambolata e distratta, e col suo zainetto sempre sulle spalle (alla Cottarelli, per intenderci) sembrava più un turista che un prof. universitario. Prese di mira Lauro e lo fece a fette. È stato lui a ridurlo a una sola dimensione, quella del populista ante litteram, del primo “viceré” repubblicano, e del più potente Masaniello del Novecento. Un occhio a quello che nel frattempo succedeva nel mondo, magari nella New York di Robert Moses, forse avrebbe aiutato a valutare meglio. Ma così è andata. E solo a otto anni dalla morte e a trenta dalla chiusura del sipario sulla sua vicenda politica, di Lauro si è cominciato a parlare valutando non solo i contro ma anche i pro.

Il primo a invertire la rotta e a presentarlo sotto una luce diversa è stato invece Pierluigi Todaro, nel 1990 (Il potere di Lauro). Lo ha fatto parlando di «un’efficienza non priva di una sua modernità», e di un leader «capace di presentarsi al governo nazionale quale artefice di una vasta unificazione del tessuto politico e sociale napoletano». Lauro che tiene unita la città, insomma. Da qui in poi la musica cambia.

Paolo Macry: «Lauro migliorò il disastrato sistema dei trasporti. Promosse una vasta opera di urbanizzazione con la nascita di nuovi quartieri popolari e nuove aree residenziali di élite». Salvatore Lupo: «Il confronto col berlusconismo mostra che il laurismo non era un mero sottoprodotto dell’arretratezza». Paolo Mieli, nell’introduzione a Achille Lauro. Una storia italiana, un libro-inchiesta, con più di venti sezioni, dei praticanti della Scuola di giornalismo del Suor Orsola di Napoli: «Ci sono molte ragioni per riconsiderare la sua avventura umana e politica».

Eugenio Capozzi, nello stesso libro: «È stato un profeta della Seconda Repubblica, un precursore del leaderismo, della mobilitazione moderata». E addirittura Luigi Musella (Il potere della politica), arriva ad accostare la figura di Lauro a quella di Giuseppe Dozza, il mitico sindaco comunista di Bologna e di Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze. «I tre – scrive – sono oggi considerati personalità agli antipodi ed è difficile immaginare una più vistosa contrapposizione di caratteri, ma furono tutti leader carismatici al di sopra del partito e delle parti che li sostennero, e distanti a tal punto dal sistema da potersi comportare come messia politici».

Il tempo ha dunque prodotto su Lauro un duplice benefico effetto. Rispetto al passato, lo ha strappato ad una immagine stracciona ed arcaica (quella di Allum) e l’ha ricollegato in un contesto nobilissimo della storia italiana (la tesi di Musella). Rispetto al presente invece, lo ha sottratto al ruolo crepuscolare di leader novecentesco (sempre Allum) e lo ha proposto come anticipatore della nuova era (la tesi di Capozzi).

Marco Demarco

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