Era cattolico e comunista. Fu incastrato e condannato grazie una montatura a cui misero mano il vescovo di Reggio Beniamino Socche, i carabinieri ma anche, con il suo silenzio complice, il Pci emiliano. Ci sono vicende giudiziarie che squarciano e illuminano la realtà di una fase storica meglio di qualsiasi studio: quello che si concluse, nel 1947, con la condanna a vent’anni di Germano Nicolini, morto qualche giorno fa poco prima di raggiungere i 101 anni, è uno di quelli. Nicolini, nome di battaglia “Diavolo”, in Emilia “Al Dievel” era stato comandante partigiano coraggioso ma non sanguinario: 13 scontri a fuoco, due battaglie in campo, aperto, pronto però a tirare fuori la pistola anche per impedire le esecuzioni sommarie dei soldati di Salò.

Lo fece quando un gruppo di partigiani pretese, subito dopo la Liberazione, il 27 aprile 1945, di requisire sette prigionieri delle Brigate nere per giustiziarli senza mandato del Cln. Nicolini rifiutò la consegna anche a costo di minacciare l’altro comandante partigiano con la pistola in pugno. Quel giorno qualcuno gliela giurò: «Ci sarà una pallottola anche per te». Invece ci fu un’accusa pesante, quella di aver ordinato l’uccisione del parroco di San Martino Reggio, frazione di Correggio, don Umberto Pessina, il 18 giugno 1946. A indicarlo fu una donna, Ida Lazzaretti. Disse di aver sentito “Diavolo” allora sindaco di Correggio, organizzare l’omicidio origliando a una porta. Quarantasei anni dopo sua nipote rivelò che la testimonianza era falsa e che era stata dettata, e pagata, dal parroco di Correggio, don Enzo Neviani. Nicolini venne accusato dell’omicidio con altri due ex partigiani, Elio Ferretti e Antonio Prodi.

L’accusa sembrò franare quando il sindaco sfoderò un alibi di ferro: al momento dell’omicidio giocava a bocce in un Paese vicino. Il capitano dei carabinieri Pasquale Vesce, che più di ogni altro aveva preso di mira “Al Diavel” non si perdette d’animo e riconvertì l’accusa: da esecutore materiale a mandante. Saltò fuori un supertestimone, Antenore Valla, altro ex partigiano. Raccontò che Prodi gli aveva detto di aver ucciso lui il parroco, su ordine di Nicolini. Questo almeno sostenne fino al processo, dove invece cambiò versione e giurò di essere stato torturato e costretto alla falsa deposizione da Vesce. Nessuno lo ascoltò. Il vescovo Socche, anzi, si sentì in dovere di raccomandare il capitano alle gerarchie vaticane per il conferimento di una commenda pontificia, che arrivò puntuale. Anche l’Arma volle premiare Vesce: lo promosse generale.

Il supertestimone Valla non sarebbe in realtà stato credibile anche senza la rivelazione sui metodi ruvidi con in quali gli era stata estorta la deposizione. Nel giorno in cui sosteneva che Prodi gli avesse confessato l’ammazzatina era a Grenoble, sotto falso nome. I documenti della Criminalpol confermavano, le impronte digitali corrispondevano, ma a essere incaricato di verificare l’incartamento fu il futuro generale Vesce. Non lo ritenne credibile e la Corte concordò. Le stesse perizie, eseguite di nuovo 46 anni più tardi confermeranno invece che quel giorno Valla era proprio a Grenoble. Il vescovo era stato peraltro informato del particolare. Non aveva ritenuto necessario informare la Corte. I veri responsabili dell’assassinio erano altri tre ex partigiani: Cesarino Castellani, Ero Righi e William Gaiti. I primi due ripararono in Jugoslavia: il percorso verso i paesi dell’Est comunisti che allora seguivano molti ex partigiani rossi accusati di omicidi nel dopoguerra Di lì confessarono l’omicidio. Furono condannati per autocalunnia. Il terzo componente del gruppo, Gaiti, vero esecutore dell’omicidio, confesserà anche lui, ma solo nel 1991.

A quel punto Nicolini, condannato a 22 anni, era uscito dopo 10, nel 1956. Ferretti e Prodi avevano scontato sette anni. Diavolo non aveva mai smesso di chiedere la revisione del processo: al Pci, che gli proponeva la fuga in Cecoslovacchia, aveva risposto che sarebbe invece rimasto in Italia, anche a costo di scontare una condanna ingiusta, pur di non perdere il diritto a chiedere la revisione. Ci riuscì. Nel 1990 il senatore del Pci Otello Montanari tirò di nuovo fuori la mai dimenticata vicenda con un articolo esplicito sin dal titolo: “Chi sa parli”. Gaiti parlò. Confessò l’omicidio. Disse di non sentirsi in colpa né per l’omicidio «È normale che dopo una guerra civile ci siano le code», né per la condanna subìta dall’amico: «Il capitano Vesce aveva già deciso che il colpevole era Nicolini. Un mio intervento non sarebbe servito a niente e nessuno si aspettava che condannassero Nicolini».

Il comandante Diavolo ottenne la revisione, patrocinato dal futuro sindaco di Milano Giuliano Pisapia e da Luciano Felisetti. L’8 giugno 1994 tutti gli imputati del processo del 1946 furono assolti. Ma a costruire o permettere la montatura non erano stati solo il clero locale e i carabinieri. Era stato anche il Pci. Moltissimi in paese sapevano come erano andate le cose. Scelsero di tacere “per il bene del partito”. Accettarono di sacrificare l’innocente, come fu accertato nel processo del 1994, un po’ per adoperarlo come capro espiatorio, un po’, probabilmente, perché nella doppia veste di cattolico e comunista Germano Nicolini non piaceva ai cattolici ma neppure ai comunisti. La diagnosi più lucida e sintetica la fece lui stesso: «Era lo stalinismo aberrante del Pci».