Innumerevoli commenti sul 25 Aprile anche sui social. Li ho trovati tutti molto significativi, tra quelli almeno che sono caduti sotto il mio sguardo per carità di facebook che mi informa a misura del mio profilo “di sinistra”. Per varie ragioni. Innanzitutto in quanto espressi all’esterno del giornalismo di stampa e TV, su tale argomento nazionale obbligatoriamente celebrativo e dunque naturalmente portato a restare schiacciato sulle celebrazioni ufficiali da parte di istituzioni e esponenti dei partiti, nonché leader d’opinione organici alle più convenzionali dialettiche del sistema. In secondo luogo e soprattutto perché, qui sui social, ad avere voce non ci sono soltanto i miei coetanei in spirito e carne, che la Resistenza non l’hanno fatta e tuttavia da essa sono stati educati in modo ravvicinato e che, a maggior ragione culturale invece che anagrafica, ne parlano con piacere.

Ma ci sono anche i giovani che del 25 Aprile non hanno esperienza se non quella trasmessa loro per mille rivoli di memorie e narrazioni scritte o cinematografiche. E soprattutto per le effusioni resistenziali vissute dai loro padri e da loro stessi nel fare cortei e manifestazioni. L’impressione che ho ricavato dalla loro lettura è stata all’insegna di una grande passione celebrativa quand’anche delusa dai successivi esiti di quell’evento salvifico o apertamente ostili al suo progressivo invilimento se non tradimento, e dunque ispirati a una nuova resistenza da rilanciare al fine di potere finalmente vincere. Solo qualcuno tra loro s’è fatto domande sul senso che abbiano avuto i cori resistenziali trasmessi da casa a casa e i felici applausi di nonni e nipoti dalle finestre.

Soltanto qualcuno, a rischio di ricevere improperi di lesa maestà o di nuovi appelli a una libertà tradita e ancora a venire, ha suggerito che il tono insieme epico e festaiolo di tutte queste celebrazioni dal basso sembrasse superficiale e evasivo, invitando a ponderare meglio il senso della giornata. Così ad esempio ha fatto Manolo Farci scrivendo: «Onorare i partigiani caduti per la libertà dell’Italia e celebrare la liberazione dal nazi-fascismo è sacrosanto e nessun nostalgico di epoche antidemocratiche potrà mai dividerci da questo sentimento. Però la Liberazione non è una specie di Natale. Non può essere un atto acritico, un vuoto esercizio liturgico, una esposizione di belle figurine.

Dev’essere pratica di Resistenza. Quindi ognuno si scelga la propria Linea Gotica e decida per cosa vale la pena di lottare oggi». Ecco quanto assai opportunamente un termine “aulico” come Resistenza può essere fatto slittare, anzi risalire, in ben altro significato e venire destinato non all’enfasi di un “noi” universale o a uno schieramento collettivo contro l’altro, popolo o classe o partito che sia, ma a una singola persona. Alla sua coscienza qui e ora. Sempre su facebook ha circolato un articolo apparso su Il Mattino, in cui Alfonso Amendola (anche lui sociologo dei media come Farci) ha usato la frase chiave “come siamo e come eravamo”. Provo ora a dire la mia. Con il 25 Aprile, si celebra un passaggio al quale ciascuno ha diritto di dire la sua per come pensa e per l’identità che veste.

Tuttavia penso che ciascuno dovrebbe domandarsi cosa questo scarto tra un prima e un dopo – sempre ripetuto a ogni stessa data di ogni anno passato e nuovo – abbia fruttato ma anche stia fruttando a se stesso e ad altri soggetti o interessi. Di che mutamento si tratta e quale rischio presenta celebrare sempre di nuovo lo stesso mutamento. Le Feste hanno sicuramente una loro vocazione tradizionalista, congelano il significato di un momento/simbolo che grazie alla sua celebrazione tanto si afferma da volere essere riaffermato. Ma in questo moto perpetuo (molto contadino: cioè di una società che conserva nei suoi rituali democratici addirittura il segno delle feste tributate dal popolo al suo sovrano) c’è pur sempre una sostanza sacrificale. Giacobbe pronto a sgozzare suo figlio in nome dell’osservanza perenne al proprio dio.

Dunque il 25 aprile può significare molte cose insieme, ma – lasciando tacere dio – anche assai diverse per ciascuno di noi: in questo caso, ad esempio, l’identità nazionale oppure l’eterna lotta tra destra e sinistra, l’idea di pace di per se stessa lenitrice e pacificante, l’eliminazione del nemico fuori delle proprie mura invece che dentro casa, una concezione di popolo universalista, una sottovalutazione dei fattori socioeconomici internazionali venuti in soccorso non per regalare soltanto sigarette. E via dicendo. Ma, se la Festa ha il suo statuto celebrativo e strumentale nell’idea che il mondo, la qualità del mondo, valga proprio in quanto assicurazione e conferma della sua unanime condivisione, allora come reagire finita la sbronza? Come sentirsi il giorno dopo, appena ciascuna delle contraddizioni che ho appena elencate ci mette di nuovo in crisi, divisi dall’altro che abita con noi, e ci si accorge che la Festa al massimo ha potuto farci dimenticare per qualche ora una divisione tra opposte forze in conflitto? Cacciato dal confessionale il diavolo riappare sul sagrato, là dove i fedeli fanno i conti con le proprie credenze.

E qui sta il punto. Potremmo allora provare a risponderci che non è necessario restare chiusi nelle passioni o ideologie o critiche o speranze che ci suscita una simile occasione simbolica di riappropriazione del nostro territorio (nostro?). E confessarci invece quanto sia urgente la necessità opposta di contrapporre all’intero insieme delle nostre speranze di libera vita un piano di riflessioni che trovi il nodo teorico più utile a smontarle e smentirle per intero dalle radici. Un punto di vista che ne neghi i fondamenti. E sono personalmente convinto che un grande tentativo critico non può mai restare all’interno della Storia.

C’è chi pensa che criticare o peggio negare la Resistenza, con tutto ciò che essa si trascina dietro prima e dopo di lei, debba sboccare in situazioni “estremiste”, ovvero nell’adozione di qualsiasi arma ideologica e soggetto che faccia cambiare il mondo liberandolo da tutti i fattori e soggetti invasori. Credo che sia il modo migliore per ricadere nella caducità sociale del 25 Aprile così come di tutte le ideologie e movimenti di liberazione sino ad oggi. Il meglio che i migliori liberatori della patria o del lavoro o dell’individuo hanno prodotto, sempre a durissimo prezzo, è stato un miglioramento della condizione umana della persona. Conquiste che seppure in modo modesto e instabile, labile e fluttuante esistono ancora ora.

Ma in conclusione di questo martoriato progredire e regredire, la lezione della storia, a parte le grandi catastrofi con cui si è sempre rinnovata e riprodotta, è consistita soprattutto nella ostinata perseveranza con cui i sistemi sociali insistono nell’invadere la natura umana (e non-umana): occuparla, asservirla, anche laddove tali sistemi si celebrano come liberati dalle barbarie precedenti. Servono esempi? Ha ragione Farci: la resistenza è qui e ora. Da ora in poi. Per capire il vero nodo critico, la vera vocazione da cui partire e la meta da raggiungere, non è in gioco la staffetta da un libera tutti e l’altro ma l’invenzione di come lasciarsi alle spalle quello che ti vuole obbligato alla regola di dovere raccogliere dalle sue mani la torcia olimpica.