La Festa della liberazione
Non meritiamo il 25 Aprile
Anche la Festa della Liberazione è finita in quarantena. Non ci saranno cortei, discorsi, polemiche all’aperto. Del resto – qualunque sia il giudizio politico e storico sulla guerra civile combattuta dal ’43 al ’45 – allora le persone morivano davvero, tanto dalla parte giusta quanto da quella sbagliata. Noi, loro figli, nipoti, pronipoti abbiamo dimostrato, in tempi di Covid-19, un adeguamento tremebondo, irrazionale e supino a regole maniacali, all’arbitrio di sanzioni assurde, a sentimenti di astio nei confronti dei “trasgressori”, dimostrando quanto sia facile per un popolo assuefarsi a un regime autoritario, a rinunciare alle libertà più elementari, a lasciarsi imporre stili di vita da carcerato.
Mi verrebbe da dire che questa volta non ci meritiamo di celebrare la ricorrenza del 25 Aprile. E forse sarà un momento di tregua perché questa Festa è sempre stata divisiva. Del resto, anche in Francia il giorno della vittoria alleata in Europa nella Seconda Guerra Mondiale o quello della liberazione di Parigi non hanno lo stesso valore unificante del 14 luglio 1789 quando venne presa la Bastiglia. Così negli Usa si festeggia il 4 luglio (la proclamazione dell’Indipendenza nel 1776) e non il 9 aprile, quando, nel 1865, si concluse, con la resa della Confederazione, la Guerra di Secessione, l’evento da cui ri-nacque la nazione americana.
In Italia, fin dall’immediato dopoguerra, è sempre stata ragguardevole sul piano elettorale e attiva su quello politico, una forza “nostagica”, che rifiutava di riconoscersi nella nuova Italia nata dalla Resistenza. Col trascorrere degli anni e con il mutamento del quadro politico è emersa, a sinistra, una linea di tendenza esclusivista, protesa ad annettersi quella ricorrenza e a precluderla ad altri partiti, di più recente costituzione, che non avevano preso parte alla sottoscrizione del patto del 1948. In sostanza, quando, agli inizi degli anni 90, dei partiti del cosiddetto arco costituzionale fu risparmiato solo il Pci, i suoi aventi causa cercarono di intestarsi l’eredità della Resistenza e della Liberazione e di usarla come motivo di delegittimazione politica di Silvio Berlusconi e del centrodestra, talvolta anche in modo settario.
In diverse circostanze è sembrato addirittura che gli avanguardisti dell’antifascismo fossero diventati i militanti dei Centri sociali. Poi, nel 2018 è scoppiato il virus sovranpopulista. In questo 2020, anche se la maggioranza è cambiata, il contesto politico e sociale rimane inquietante. Se non si fosse messo in castigo dietro la lavagna da solo, nell’agosto scorso, oggi Matteo Salvini sarebbe ancora al Viminale o, peggio, a Palazzo Chigi (se si fosse andati a votare come chiedevano anche esponenti democratici e della sinistra). La Lega resta ancora il primo partito nei sondaggi. In alleanza con gli ascari, in forte ascesa, di Fratelli d’Italia (che non rinnegano le loro radici) sulla carta potrebbe vincere le elezioni politiche.
Come si spiega questa ‘’passione’’ dei nostri concittadini per Matteo Salvini? Come si fa a non capire che la strategia del leader della Lega non è più quella della difesa dei confini dall’invasione dei negher, delle sparate propagandistiche sulle pensioni. Oggi si gioca una partita più importante, decisiva: il futuro dell’Unione europea. L’attacco – senza motivi e senza principi, all’insegna della menzogna conclamata – ai temi dei negoziati in corso tra i partner comunitari, punta decisamente a rendere incompatibile la permanenza dell’Italia nell’Europa e nell’euro. Non ad uscire, ma a farsi cacciare. Ed è un progetto non solo irresponsabile, ma demenziale.
Vorrebbe dire rinunciare a ben più dei 36 miliardi del Mes sanitario (che corrispondono pur sempre a un terzo del finanziamento annuo del Fondo sanitario nazionale e che sono unicamente condizionati al contrasto degli effetti diretti ed indiretti del contagio ‘“funesto” sulle strutture sanitarie); ma a rinunciare – tra l’altro – all’ombrello protettivo della Bce per un valore di 220 miliardi per il 2020. L’acquisto dei nostri titoli di Stato da parte dell’Istituto di Francoforte consente di contenere l’ammontare del servizio del debito che è destinato a crescere per via dell’incremento dello spread. Certo, sono necessari altri interventi con mezzi finanziari innovativi.
Il fatto che da noi non si possa neppure pronunciare l’acronimo del Meccanismo europeo di stabilità non ha alcun senso. Nessuno obbliga il governo italiano a servirsene (non è mai stato richiesto in passato) ma nessuno può pretendere di accedere a un prestito senza condizioni. Il disegno folle dei sovranisti è destinato a fallire non tanto per i giochi di prestigio di Giuseppe Conte, ma per il senso di responsabilità di Macron e della Merkel (la quale presiederà l’Unione nel secondo semestre dell’anno) che sono disponibili a trovare il modo di salvare la faccia al governo italiano, nonostante che ne abbia combinate di tutti i colori per mettersi in difficoltà.
In questi mesi in cui è in corso il suicidio dell’economia del mondo sviluppato, si è evocato spesso l’intervento del Piano Marshall che consentì ai paesi europei – sia vincitori che sconfitti nella Seconda guerra mondiale – di curare le proprie ferite e riconquistare in pochi anni la rinascita e la ripresa. È sempre rischioso fare indossare alla storia le stesse braghe di epoche lontane e diverse. Anche perché il pacchetto predisposto dalla Commissione europea è più consistente di quello dell’amministrazione americana nel dopoguerra.
C’è tuttavia un elemento importante in comune. Il Piano, che porta il nome del segretario di Stato Usa, era il corollario di un’alleanza politica (poi divenuta anche militare), rivolta all’adozione di ordinamenti democratici e alla scelta del libero mercato in economia (a quel tempo orientato alla produzione di beni di consumo durevoli), con la conseguente riconversione degli apparati industriali bellici. Ecco perché il conseguimento di un’intesa a livello europeo non può non avere anche un risvolto politico e istituzionale, che confermi e rinnovi nel contempo quel sistema di alleanze internazionali che hanno garantito all’Europa un lungo periodo di pace e di prosperità. Le forze politiche che oggi vogliono mettere in crisi l’Unione non possono non avere – se sono lucide – anche un diverso disegno geopolitico, orientato ad Est; e preconizzare un diverso modello di economia.
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