Alaìde Ventura Medina è un’antropologa, scrittrice ed è al suo secondo romanzo, “Album di famiglia” (Polidoro Editore), dove i due sguardi, quello analitico della scienza e quello emotivo della letteratura, si fondono fino a sorprendere. La giovane protagonista ritrova in una scatola varie foto dell’infanzia, sono appartenute a suo fratello Julian, che le ha conservate nel corso della sua breve esistenza. Appartengono in verità anche a lei, ora è immersa nei ricordi. Scatto dopo scatto, a cominciare dai reperti di una storia che torna in superficie attraverso tali testimonianze silenti, si ricompone il quadro della famiglia, i troppi silenzi, il disamore, tutta la violenza.

La scrittura nasce dallo sguardo posato sulle singole fotografie e poi, con un movimento d’apertura, di volta in volta si allontana e divaga, chiarisce, puntualizza, per indagare e restituire il contesto. Il ritmo è necessariamente frammentario, intimo e discontinuo quanto le immagini del passato comune, simili a schisi del tempo sopravvissute nella memoria. Grazie al supporto dei residui visivi, delle tracce, la protagonista torna indietro fino al nocciolo della ferita. Tutto sembra preludere a una catastrofe domestica e forse è per via di questo stato irrinunciabile di precarietà che lo stile si appoggia al controllo e alla misura formale: gli aggettivi scompaiono, le frasi si asciugano, le parole si danno soprattutto in forma di definizione: “Parlare: inviare un messaggio. Anche il silenzio è un messaggio. Non parlare è parlare”. Il compito della voce narrante è quello di arrivare all’ultima foto senza un crollo, e dunque il piglio rigoroso, e dunque questo processo d’analisi attraverso cui rimontare i pezzi con apparente distanza. “I soldi che papà era disposto a spendere erano direttamente proporzionali alla quantità di giorni che era stato assente”.

Un padre violento, un padre alcolista e assente. Come conseguenza dei suoi eccessi e dell’ira, il silenzio. Un fratello, Julian, che smette di parlare, costringendo sua sorella a caricarsi davanti ai ripetuti silenzi il peso dell’incertezza. A cosa pensa, Julian? Cosa fa quando si rinchiude nella sua stanza? Soltanto chi ha vissuto con una persona che non parla, può sapere quanto il silenzio riempia ogni spazio, il silenzio di Julian invade. Un gioco di ruoli ormai stabilito in cui dev’essere la protagonista a disinfettare le ferite sulla schiena della madre, così come è lei a fuggire di casa, andarsene per tentare di farcela senza di loro. Le macerie, tuttavia, resistono nella distanza in cui lei imita per mimesi la violenza del padre, ma lentamente implode. “Amare è sempre un tradimento perché implica una scelta, e ogni scelta comporta una rinuncia. Il peggiore degli scenari è mettersi di fronte a uno specchio. Tradire me stessa.”

Tutte le strade portano alla mancanza, una nostalgia che non la abbandona, di suo fratello e della madre. Ma ora che la protagonista è sola con i pezzi dispersi del suo passato, non può eludere ciò che aveva messo in un angolo e allora lo interroga e lo scandaglia. “Nel gioco di specchi che è a volte il mondo, ho sempre rifuggito il mio riflesso più veritiero. Le persone che mi assomigliano spesso mi sembrano le più detestabili.” Non è tempo di farsi distrarre dalla superficie del qui e ora, questo, ma è quello dei ricordi: mettersi di fronte allo specchio e interpellarsi con sincerità. Un padre morto senza mai pentirsi. Un fratello che ha pianificato con cura la sua morte. Nella solitudine dei legami sanguinanti e spezzati da cui è composta la sua vita, la protagonista continua a estrarre dalla scatola le fotografie e a ricomporre il tutto in una pratica che si svela da subito impossibile e disumana. Trovare una spiegazione per ciò che è stato non può essere il punto. Conservare i pezzi di un’infanzia segnata dalla violenza e dal trauma, invece sì, perché il silenzio smetta di essere la soluzione. Raccontare, al posto di tacere. Disseppellire e scrivere, al posto di nascondere. Provare a sanare ciò che è rotto, attraverso il balsamo delle parole.