Siamo in un interregno. Proprio come scriveva Gramsci nel 1923: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. E se pensiamo, alla via della guerra in cui Putin sta ostinatamente trascinando la Russia e l’Ucraina, o alla grave crisi della democrazia americana ci rendiamo conto dei rischi che corriamo in questa transizione. Le tante crisi che ci stanno colpendo sono effetti collaterali del successo della stagione della globalizzazione espansiva.

La parola sintetica che riassume il nodo che dobbiamo sciogliere è “sostenibilità”: proprio la multidimensionalità della crisi ci indica che la stessa crescita economica non regge se non ci si fa carico delle condizioni per la sua rigenerazione. Condizioni che riguardano il rapporto con l’ambiente, ma anche gli assetti istituzionali e geopolitici, la formazione delle persone, il contrasto delle disuguaglianze, gli equilibri demografici e intergenerazionali. Attraversare l’interregno significa, dunque, passare da un capitalismo della crescita (dove bastava liberare le energie economiche per stabilizzare la società) a uno della sostenibilità (dove bisogna preoccuparsi di una serie di interdipendenze). Il salto non può prescindere dalla dimensione tecnologica: dobbiamo imparare a usare energie pulite, a ridurre gli sprechi, a creare un’economia circolare. Ma la questione non è riducibile a questa dimensione. Al cambio di fase serve una diversa idea politica che, a sua volta, rimanda ad una nuova lettura della società, E, infine, a una diversa idea di libertà.

Dappertutto (in Occidente e non solo) si diffondono populismi e autoritarismi. Perché? Molte sono le ragioni. Ma, nella sostanza, questi movimenti prosperano per le contraddizioni del modello che ha dominato il pensiero delle elites economiche e politiche degli ultimi decenni. E che oggi ritornano in una interpretazione riduttiva della questione della sostenibilità. Se l’economia viene vista solo come una macchina da efficientizzare, se la differenza è esclusivamente una questione dell’Io individuale, i problemi non possono che aumentare e l’opposizione sociale crescere.

Che fare allora? Serve tornare a una visione multidimensionale, come quella che ha lasciato in eredità un grande autore come Max Weber, secondo il quale le diverse fasi del capitalismo vanno distinte per il modo in cui ricombinano tre dimensioni: gli assetti politico-istituzionali (come dimostrano le forti tensioni di questi anni sul piano geopolitico e le discussioni sulle nuove regole del gioco a livello globale); la costellazione tecnologico-finanziaria (che oggi implica entrare nella fase matura del processo di digitalizzazione, con le enormi conseguenze che ciò comporta); un insieme di valori di riferimento in grado di orientare e tenere insieme i diversi aspetti della realtà (trovando una via per andare al di là della polarizzazione tra progressisti e populisti). Dal punto di vista politico, si tratta di risolvere un difficile trilemma: spingere avanti la crescita qualificandola dal punto di vista della transizione ecologica; controbilanciare le spinte verso l’aumento delle disuguaglianze e le differenze territoriali; costruire nuovi assetti istituzionali (ai vari livelli: locale, nazionale, continentale, globale) per governare la complessità crescente che la transizione implica.

L’impasto tra queste tre dimensioni delinea quello che Weber chiama “spirito”, termine sintetico per cogliere i tratti distintivi di una data epoca. Se si guarda alla storia della seconda metà del 900, si può vedere distintamente quello che è accaduto: il neoliberismo di Reagan e Thaceter, che si incontrò dieci anni più tardi con la caduta del Muro di Berlino, fu capace di incorporare l’idea di libertà individualistica – portato del benessere e delle democrazia – nello schema politico, anche ribaltando le certezze economiche che avevano dominato il periodo post-bellico. Ora è necessario un movimento ugualmente rivoluzionario: a partire da una interpretazione adeguata della crisi in corso. L’individualismo degli ultimi decenni ha frammentato il mondo, ha disgregato il tessuto sociale, ha consumato l’ambiente, ha alimentato le paure e l’odio sociale. Ha fatto crescere l’entropia, cioè quella dinamica di disgregazione che scompone e omologa: basti pensare non solo alla perdita di biodiversità, ma anche alla riduzione dell’opinione pubblica a fazioni polarizzate, a sterile belligeranza.

Per questo, al centro della crisi che viviamo vi è il destino della liberta: c’è una via d’uscita tra la soluzione tecnocratica che ci consegna al dominio degli algoritmi e alla società della sorveglianza, da una parte, e la via autocratica, che pretende di rimettere nella lampada il genio dell’autodeterminazione individuale? La via, per quanto difficile, si intravvede. E sta nell’ascoltare quello che la scienza (e prima di lei le religioni e la psicanalisi) ci sta dicendo da anni: e cioè che non c’è forma vivente sulla faccia della terra che non sia in relazione con ciò che viene prima, con ciò che sta intorno e con ciò che viene dopo. Come sonnambuli, continuiamo a vivere conservando un inspiegabile ritardo tra ciò che sappiamo – la vita, compresa nella sua forma umana, è in relazione – e come viviamo – con un modello sociale che continua essere fondato sul principio di sovranità moderna (individuale, organizzativo, statuale). Con le implicazioni politiche che da qui derivano. Riconoscere la natura relazionale dei processi vitali – e quindi della vita e della libertà umane – indica la via da percorrere per contrastare le derive entropiche che rischiano di travolgerci: non si tratta di “fare relazione”.

Le relazioni costituiscono l’intera realtà. Siamo già tutti interdipendenti; o, meglio “interindipendenti”: tra noi, con l’ambiente, con le generazioni che ci hanno preceduto e quelle a cui lasceremo il mondo. Si tratta di riconoscerlo. E trarne le conseguenze: cioè cominciare a prendersi cura di questa rete di connessioni in cui siamo, e che siamo. Dove la cura non è la buona azione, ma una postura che ci rimette in movimento, che attiva una dinamica trasformativa al tempo stesso di noi e della realtà, moltiplicando la capacità di cambiamento e orientamento dei processi.

La vita quando è viva genera. Dove generare non ha solo un significato biologico: la sua radice greca, gignomai, rimanda alle idee di essere, far essere, diventare. Ciò che facciamo esistere (e far esistere qualcosa che ancora non c’è, piuttosto che scegliere tra ciò che c’è già) è la forma più alta di libertà. Ci fa esistere e contribuisce al divenire. In una società desiderabile (che ovviamente ancora non esiste) il vero dono che possiamo scambiarci tra noi è proprio una libertà che esprimendo la sua originalità non distrugge il mondo ma accresce la vita. E questo non per una ragione etica. Ma per la comprensione più approfondita di ciò che è vivo.

È una intelligenza appropriata quella di cui abbiamo bisogno. In un momento come questo, occorre più discontinuità che continuità. Serve cioè la capacità di imprimere delle accelerazioni, dei salti. Ad esempio, come hanno proposto di recente dieci premi Nobel, spostando progressivamente la tassazione dal lavoro all’impronta ambientale; o affrontando il nodo del rapporto tra economia reale e finanziaria, dato che impossibile realizzare la transizione ecologica e combattere le disuguaglianze senza mettere in discussione un sistema finanziario ormai del tutto autoreferenziale; o mettendo radicalmente mano all’intera filiera dell’educazione e della formazione: perché solo attraverso l’investimento sulle persone e le comunità il capitalismo della sostenibilità si potrà impiantare. Si dirà che tutto questo è il libro dei sogni e che la politica deve essere concreta e risolvere i problemi immediati.

Può darsi. Sta di fatto che la mancanza di visione – che precede e causa l’incapacità di realizzare politiche incisive e efficaci – ci trascina tutti verso il baratro. Per scacciare i mostri che vediamo crescere attorno a noi, la libertà deve fare un deciso passo in avanti. Nel riconoscere la sua natura relazionale, la libertà può imparare a qualificarsi non solo per i diritti che rivendica e per le scelte che può effettuare. Ma anche per la qualità delle relazioni che decide di far esistere. Come nel secondo dopoguerra, la società dei consumi fu un progetto realizzato costruendo gli assetti sociali, economici, culturali, istituzionali più adatti, così oggi una nuova politica ha il compito di immaginare e costruire le condizioni per rigenerare la vita sociale ed economica potenziando la libertà generativa. Premessa e condizione di quel nesso paradossale che abbiamo disperato bisogno di riconoscere tra pluralità e unità, tra tradizione e innovazione, tra libertà e legame.

Mauro Magatti

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