La testimonianza a Perugia
Amara sulla faida in procura: “Una misteriosa tenentina mi disse…”
Tutto abbondantemente secondo le previsioni della vigilia. Chi si aspettava qualche colpo di scena sarà rimasto sicuramente deluso. Stiamo parlando della attesissima testimonianza di Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni e ‘gola profonda’ di almeno 6 procure della Repubblica, ieri presso il tribunale di Perugia nel processo nei confronti di Luca Palamara e Stefano Rocco Fava. I due magistrati, all’epoca alla procura di Roma, secondo l’accusa avrebbero posto in essere nel 2019 una campagna a mezzo stampa per screditare sia l’aggiunto Paolo Ielo che il procuratore Giuseppe Pignatone.
Palamara, rientrato a piazzale Clodio dopo aver terminato a settembre del 2018 l’incarico di consigliere del Csm, avrebbe in sostanza ‘istigato’ Fava a presentare un esposto proprio a Palazzo dei Marescialli nel quale venivano evidenziate alcune mancate astensioni del procuratore e dell’aggiunto in diversi procedimenti penali. Lo scopo ultimo dell’esposto sarebbe stato, sempre secondo l’accusa, quello di consumare una “vendetta” nei loro confronti. Ielo, in particolare, doveva essere danneggiato in quanto aveva trasmesso alla procura di Perugia il fascicolo con i rapporti che Palamara aveva avuto con il faccendiere Fabrizio Centofanti e che gli avevano provocato l’accusa di corruzione, impedendogli di fatto di poter aspirare ad uno dei posti disponibili di procuratore aggiunto a Roma.
Nella sua testimonianza durata l’intera giornata, Amara ha confermato quanto già dichiarato in precedenti occasioni sul ‘potere’ di Palamara al Csm in materia di nomine. A sentire Amara ci sarebbe stata una fila di non meglio precisati magistrati che gli chiedevano di intercedere per un incarico. E Centofanti, in particolare, avrebbe fatto da tramite con Palamara. Sul clima di tensione in Procura a Roma, e quindi sui rapporti tesi fra Palamara e Fava da un lato e Ielo e Pignatone dall’altro, è spuntata poi una tenente della guardia di finanza, allo stato non identificata, che avrebbe riferito ad Amara di tali propositi vendicativi. Ad ascoltare la testimonianza di Amara era presente Ielo che si è costituito parte civile contro Fava.
Anche Amara, che si è avvalso della facoltà di non rispondere a tutte le domande che riguardavano la loggia Ungheria essendo indagato in procedimento connesso, aveva chiesto, ricevendo un diniego, di costituirsi parte civile. L’avvocato aveva quantificato in 500mila euro la somma a titolo di risarcimento per l’ingente “danno morale che ha causato sofferenza interiore” provocato dal comportamento di Fava e Palamara. Sia Fava che Palamara hanno sempre negato di aver posto in essere alcuna campagna diffamatoria che poi sarebbe consistita in un paio di articoli pubblicati il 29 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano e La Verità.
Rispetto a Palamara, Fava è anche accusato di essersi abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap della procura di Roma per acquisire atti riservati. Una condotta che secondo i pm umbri sarebbe avvenuta “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”. Tutto secondo le norme, invece per il magistrato, ora giudice a Latina, che si era solo premurato di verificare le circostanze conosciute nell’esercizio delle sue funzioni, “per potere presentare una denuncia e sottoporre alla valutazione degli organi competenti fatti veri e documentati, nel convincimento della loro possibile rilevanza penale e della doverosità di un loro approfondimento nelle giuste sedi”.
Fava ha più volte sottolineato di non essere stato istigato da Palamara e di aver voluto solo segnalare agli organi competenti, Csm in primis, “nel rispetto della legge”, quanto era accaduto, ad iniziare dalla revoca da parte di Pignatone delle indagini che stava conducendo contro lo stesso Amara. Nei mesi scorsi erano stati anche interrogati i cronisti del Fatto Quotidiano e della Verità, autori degli articoli, i quali avevano negato di aver ricevuto informazioni da Fava sull’esistenza dell’esposto. L’iniziativa per la pubblicazione degli articoli era stata presa da entrambi in piena autonomia, senza pressioni da parte di Fava e Palamara, trattandosi di fatti noti al palazzo di giustizia di Roma.
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