La giustizia italiana funziona a varie velocità. È un dato oggettivo. Molto dipende da chi è l’imputato. Se si chiama Luca Palamara, ex zar decaduto delle nomine dei magistrati, in meno di un anno il procedimento (disciplinare) viene definito in primo e secondo grado. Se, invece, si chiama Piero Amara, l’avvocato dai mille misteri ed esponente di punta della loggia segreta Ungheria, il fascicolo si “incaglia”.

Per ricostruire la vicenda che vede protagonista Amara è necessario tornare al mese di marzo del 2019, quando l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone decise di revocare al pm Stefano Rocco Fava il procedimento nei confronti dell’avvocato siciliano. Fava all’epoca stava indagando Amara per autoriciclaggio e appropriazione indebita. Il pm aveva anche chiesto di arrestare il legale siciliano, sequestrandogli i 25 milioni di euro che aveva ricevuto dall’Eni. Pignatone, insieme agli aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli, dopo essersi rifiutati di apporre il visto sulla richiesta cautelare, aveva tolto il fascicolo a Fava, provvedendo a una nuova riassegnazione. Il fascicolo venne poi mandato a Milano per competenza territoriale.

Fava, come previsto dalla circolare del Consiglio superiore della magistratura, senza ricorrere al metodo “Storari”, quello della consegna brevi manu al consigliere di riferimento, scrisse allora una ventina di pagine di osservazioni, affinché il Csm valutasse se dargli torto o ragione. Da Palazzo dei Marescialli fecero sapere che avrebbero risposto “non appena cessato il segreto”, essendo le indagini nei confronti di Amara in corso. Passano i mesi e, non avendo avuto alcuna notizia dal Csm sulle proprie “osservazioni”, dopo varie telefonate, per il tramite del proprio difensore, Fava decide di prendere carta e penna e chiedere formalmente notizie. Lo scorso marzo il segretario generale del Csm risponde a Fava comunicandogli che della questione era stata investita la Settima Commissione del Csm, competente per l’organizzazione degli uffici giudiziari.

Dopo questa comunicazione passano altre settimane senza alcuna notizia. A maggio 2021 Fava, sempre per il tramite del proprio difensore, scrive allora direttamente alla Settima Commissione del Csm, chiedendo quali valutazioni abbia espresso sulle osservazioni di marzo del 2019. Fava manifesta anche la disponibilità a essere sentito per fornire tutti i chiarimenti, in caso fosse necessario. A metà giugno scorso, il Comitato di Presidenza del Csm, composto dal vice presidente David Ermini, dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale Giovanni Salvi, fa sapere che sulle osservazioni di Fava di marzo del 2019 “non risultano adottate determinazioni”, ricorrendo asserite esigenza di “segretezza”. Il difensore di Fava risponde a stretto giro, rappresentando che non possono ritenersi sussistenti esigenze di segretezza poiché le osservazioni di Fava sono state depositate dalla Procura di Perugia ad aprile 2020 con l’avviso di conclusione delle indagini preliminari fatto a Luca Palamara e sono state addirittura integralmente pubblicate sul libro Magistropoli del giornalista del Fatto Antonio Massari, edito nell’ottobre 2020. Da allora tutto tace.

A norma del codice di procedura penale, le indagini possono durare, al massimo, due anni. Abbondantemente trascorsi da quando Fava fece le sue “osservazioni” e Pignatone, Ielo e Sabelli mandarono il fascicolo che gli avevano tolto alla Procura di Milano. Il procedimento su cui stava indagando Fava, giunto a Milano, venne riunito nel “fascicolo complotto Eni”, in carico alla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio. La particolarità di questa storia è che il “fascicolo complotto Eni” risulta essere stato iscritto nel 2017. In questo fascicolo, pendente quindi da 5 anni, sono finiti anche i famosi verbali di Amara sulla loggia Ungheria, consegnati nella primavera del 2020 dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo. Resta da chiedersi, dunque, cosa e soprattutto chi tuteli il Csm ponendo il segreto su documenti finiti anche in un libro, e la Procura di Milano che non chiude le indagini dopo cinque anni.