«Il cinema italiano è morto, non esiste più. E che esistano degli autori non vuol dire che esista un cinema». Così dichiarava Valerio Zurlini (1926-1982) in un’intervista del 1967 sulla Rivista del Cinematografo. Oggi, nel quarantesimo anniversario della sua precoce scomparsa, le sue parole sono ancora più vere di quanto non lo fossero allora. Di fronte a un cinema italiano così incline alla maniera, al pittoresco, a una triste estetica middlebrow, qualcosa fa pensare che i tempi siano maturi per una rottura radicale, per la nascita di un cinema completamente nuovo. Di questo nuovo cinema, uno dei riferimenti teorici potrebbe essere proprio Zurlini.

Il suo approccio alla creazione filmica suona oggi particolarmente scandaloso. Egli infatti da un lato crede nel cinema come arte e dall’altro rifiuta il concetto di film d’autore come genere a sé stante; da un lato crede in un’arte alta contro il cinema di massa, dall’altro concepisce un cinema destinato alle moltitudini; da un lato fa un cinema fortemente politico, dall’altro rifiuta il cinema engagé. Gli è estranea sia l’ideologia del film escape (un film d’evasione che non evade abbastanza, parafrasando Adorno) e sia quella del film message (il film sociale prescrittivo e riconciliato). I suoi film migliori, La ragazza con la valigia (1961), Cronaca familiare (1962), e soprattutto La prima notte di quiete (1972), sono dunque l’antitesi di qualsiasi forma di manierismo: è come se al loro interno agisse una sorta di rivoluzione permanente che impedisce alla forma di pietrificarsi, di convertirsi in schema, mantenendone vivo il nucleo dialettico. Questa ricerca conduce all’eliminazione di ogni elemento seduttivo o effettistico, per giungere a uno stile il meno ideologico possibile.

Per capire lo stile di Zurlini è illuminante il suo rapporto con Tolstoj, da lui amatissimo. Come Tolstoj, Zurlini si affida a un registro realistico e a un’espressione limpida, all’insegna di una pennellata distesa, uniforme, sicura. Ma rispetto allo scrittore russo vi è qualcosa di più trattenuto, un vago distacco, prodotto soprattutto dalle sue inquadrature lunghe. Zurlini dirige in punta di penna, fermandosi a qualche passo dalla rarefazione senza però mai arrivarci. In Cronaca familiare la sua scrittura filmica si fa solenne e rilassata, in La prima notte di quiete acquisisce qualcosa di ancora più etereo, quasi di mahleriano. Egli non appartiene alla famiglia del cinema puro (l’estetica della frammentazione) ma a quella del piano-sequenza e del montaggio interno: compone dunque in profondità, sfruttando i diversi piani dell’immagine. A differenza di molti registi del piano-sequenza (come Welles, ad esempio), il suo cinema non ha però una natura teatrale. Tra uno stacco e l’altro non vi sono brani d’azione separati, ma tutto è concatenato, i movimenti di macchina sono funzionali e mai virtuosistici.

Nello stile di Zurlini si sente l’influenza di Antonioni (soprattutto ne Il deserto dei Tartari, 1976, il più antidrammatico dei suoi film), ma senza quella certa estenuazione, quella lentezza un po’ estetizzante; si sente Visconti, ma senza quel gusto dell’orpello e del preziosismo. La sua modernità si esprime anche in un deciso rifiuto del dialettalismo, del caratteristico, del tipico (tranne nei suoi film meno riusciti: Le ragazze di San Frediano, 1955, e Le soldatesse, 1965). Zurlini è anche critico d’arte ed è amico personale di numerosi artisti, da Morandi a Balthus ad Afro (suo figlio Francesco è, tra l’altro, uno dei più interessanti pittori italiani contemporanei). Non mancano nei suoi film citazioni pittoriche, sempre mediate e filtrate, mai trasferite di peso (il Rosai di Cronaca familiare, il Fattori del Deserto dei Tartari e molti altri). Nel modo in cui Zurlini filma Jacques Perrin in Cronaca familiare, in cui ne coccola il corpo con la macchina da presa – cogliendo la dimensione tattile del romanzo di Pratolini – si avverte lo sguardo di chi conosce l’arte classica e la sua cifra di fisicità.

I personaggi di Zurlini, marxista cristiano e libertario, hanno tutti dei tratti comuni (interessanti riflessioni sono venute da Francesco Savelloni, Gianluca Minotti e Meris Nicoletto nei loro studi sull’argomento). Sono delle figure eccentriche, non inquadrate, attraversate dal desiderio di forzare la quotidianità borghese per giungere all’utopia di una società senza classi, solidale, liberata dalle leggi crudeli di potere e di sopraffazione che governano la società capitalistica. In questo senso, l’amore romantico diviene lo strumento privilegiato per tentare questa disperata via di fuga da un mondo aggressivo e conformista, alla ricerca delle ragioni dell’umano e dell’intersoggettività.

C’è il Bob delle Ragazze di San Frediano, che cerca nel libertinismo una forma in qualche modo di evasione; ci sono le due anime perse Lorenzo e Aida de La ragazza con valigia, lui aristocratico sedicenne e lei sottoproletaria ventunenne, che cercano di fuggire dalla loro solitudine senza rimedio attraverso un amore impossibile, che trascenda l’età e la classe; c’è il Lorenzo di Cronaca familiare, un proletario allevato dal maggiordomo di un aristocratico, il cui statuto di classe è tanto indefinibile quanto egli è puro, non contaminato dalla società del lavoro borghese, la quale alla fine pretende idealmente il suo sacrificio sull’altare del mondo razionalizzato; c’è il Daniele de La prima notte di quiete, aristocratico sradicato e divenuto insegnante, che riconosce della diciannovenne Vanina l’anima autentica al di là del turbolento passato di lei, e spera di farla fuggire, e di fuggire egli stesso, da quello spietato mondo piccolo-borghese che li tormenta (con affascinanti echi da Perfidia, 1945, di Bresson); c’è infine, nel Deserto dei Tartari, l’ideale contrapposizione tra Drogo, anch’egli in qualche modo eccentrico alla sua stessa classe, e il borghese arrivista Mattis, le cui maniere aggressive sono l’espressione di uno specifico atteggiamento antiumanista. Ogni progetto, ogni speranza finiranno tuttavia nel nulla, come accade all’amore tra Carlo e Roberta in Estate violenta (1959).

Infine il tema del perdono, di quella Grazia che all’ultimo momento potrebbe illuminare una vita ritenuta perduta. Si pensi a Seduto alla sua destra (1968), che rilegge in termini contemporanei la vicenda di Cristo e dei ladroni, ma anche alla sceneggiatura del film non realizzato Il Sole nero: ecco l’amore di Zurlini per Dostoevskij, per il Fra Cristoforo dei Promessi Sposi. Nonostante le apparenze, la nozione di melodramma (peraltro da sempre scivolosa) non è facilmente applicabile al cinema di Zurlini, il quale quasi mai, soprattutto nei tre film migliori, si lascia andare al sentimentalismo e a un effettismo facile. Piuttosto si potrebbe parlare di cinema tragico, della disperazione e dell’amour fou, e al contempo del pudore e della tenerezza. Ecco dunque una strada possibile per rifondare, guardando anche a Zurlini, un nuovo cinema italiano.