Le centrali del boicottaggio anti-israeliano e le adunate accademiche che punteggiano l’Italia da nord a sud dicono, già solo per i numeri, che non si tratta di episodiche e disparate iniziative di un volatile spontaneismo. Ora con sigillo definitivo di decisioni formali, infatti, ora con ampie e aggressive mobilitazioni rivolte a ottenerle, viene identicamente da Pisa a Torino, da Bologna a Bari, da Firenze a Roma e a Napoli una generale mozione “contro Israele”, lo sfiato di un risentimento che affetta indignazione per il “genocidio” in corso nella Striscia e in realtà toglie la polvere depositata sul solito pregiudizio che non contesta a Israele di agire male in questa o quell’occasione, ma puramente e semplicemente il diritto di esistere e di difendersi da quelli che ne vogliono la distruzione. A volte si tratta degli arzigogoli soltanto verbosi di una docenza combattente che riveste di toga e tocco gli spropositi che risuonano nelle manifestazioni per l’estirpazione dell’entità sionista dal fiume al mare; a volte si tratta di perfezionamenti esecutivi più strutturati, come a Torino, dove l’istituto universitario ha organizzato una

“ricognizione” della contaminazione israelita intimando ai direttori di dipartimento, con eloquio da capocaseggiato, di “compilare e/o diffondere” la lista delle entità compromesse. E vale la pena di riportare testualmente il comando accademico: “Analizzare le collaborazioni in essere con imprese e università israeliane e con imprese del settore bellico-militare”. Con buona pace della teoria secondo cui si discuterebbe dell’inbitoria mirata su ricerche di esperimento genocidiario (questa, pressappoco, era la giustificazione), e con la verità semplice e oscena che si palesa nel ripudio di realtà produttive e culturali bardate dell’esclusiva colpa di essere israeliane (ebraiche non si poteva ancora dire). Ma, oltre ai numeri e alla sfrontatezza di quelli che se ne rendono protagonisti, il secondo tratto di gravità per cui si segnalano queste iniziative riguarda il riscontro di sostanziale e diffusa accettazione di cui esse, nel giro di qualche settimana, hanno potuto godere.

Quella proliferazione, infatti, avrebbe potuto in linea teorica essere rubricata dall’opinione pubblica e dai ranghi politico-istituzionali del Paese come si fa nel caso di qualche allarmante e deplorevole fenomeno di involuzione civile, insomma una pur larga fiammata di insubordinazione ai canoni della convivenza democratica e ai precetti di tolleranza e non discriminazione destinata tuttavia ad essere spenta da un presidio sociale, culturale e dell’informazione indisponibile a consentirne l’accreditamento. Ma contro ciò che in teoria sarebbe potuto accadere, e contro ciò che in teoria chiunque avrebbe dovuto augurarsi che accadesse, è invece accaduto in pratica esattamente il contrario. Anziché manifestarsi come disagi preoccupanti ma sorvegliati di un corpo complessivamente sano, quei fatti, dalla contestazione rivolta al giornalista accusato di “sionismo” (ormai delitto, nell’Italia che scrisse le leggi razziali) alla proscrizione universitaria dell’elemento israelita cui imporre il nuovo segno giallo, disegnano una mappa ormai modificata della scena italiana.

Una mappa che conferisce cittadinanza di fatto e di diritto a questi insediamenti dell’intolleranza discriminatoria, pericolosi tanto più per il comune rifiuto di identificarli per ciò che sono. Quando infatti il presidente della Repubblica, pur in modo onorevole, non scontato e meritorio, dimostra solidarietà nei confronti del direttore di giornale cui la sedizione napoletana contesta il diritto di presentare un proprio libro, e rivolge il proprio monito affinché sia libero di parlare “chi la pensa diversamente”, ebbene assistiamo esattamente al rifiuto di riconoscere le fattezze del mostro: perché a giustificare la prepotenza con cui si è preteso di impedire a quel giornalista di tenere una conferenza non era il fatto che lui la “pensasse” diversamente (diversamente da cosa e da chi?), ma il fatto che fosse un ebreo indisponibile a mettere in prima pagina un giorno sì e l’altro pure che Israele è una specie di Quarto Reich con la stella di David al posto della svastica e che Hamas ha certamente commesso crimini, ma con un equanime bouquet di “ma”, di “però” e di “tuttavia” posto a spiegare in dialetto Onu che il 7 ottobre non viene dal nulla. Ancora, e analogamente, non si vuol riconoscere quel mostro quando quelle scelte discriminatorie sono attribuite alla valentìa militante, magari un po’ poetica e scollata, ma insomma encomiabile, di quei senati accademici aperti al “confronto” con i ragazzi che vogliono un’università democraticamente Judenfrei. Un po’ di storia, se fosse frequentata, insegnerebbe che le legislazioni e le pratiche discriminatorie di cui l’Europa ha avuto tragica esperienza e responsabilità non si attuavano mai su presupposti di dichiarata violenza sopraffattoria, ma sempre in omaggio a fini difendibili e persino striati di nobiltà umanitaria. Com’è il fine di salvaguardia della popolazione palestinese per il tramite del boicottaggio degli scienziati israeliani.