Resa dei conti
Attentato London Bridge, scaricabarile sull’attentatore

Qualcuno s’è sbagliato di grosso su Usman Khan, l’attentatore ucciso dalla polizia venerdì sul ponte di Londra dopo aver accoltellato a morte due persone. Evidente ormai al mondo come tutto fosse Usman Khan tranne l’aspirante stragista convintosi in una cella inglese ad abbandonare la guerra santa contro l’Occidente – semmai un detenuto determinato ad uscire di galera il prima possibile e ad adottare il comportamento necessario per riuscirci – a Londra da tre giorni antiterrorismo, polizia e giuristi vari vanno in scena con lo scarcabarile delle responsabilità. Chi è stato così incapace da non capire che il ventottenne jihadista finito in carcere nel 2012 per aver pianificato un attentato nella City, senza riuscirci, ci avrebbe provato ancora? Scotland Yard addita il sistema giudiziario. Il Parole board, l’organismo indipendente britannico che valuta i rischi della liberazione di un detenuto prima della fine del compimento della condanna, fa sapere che il via libera non è partito da quell’ufficio. Anzi, il dossier Khan loro non l’hanno proprio mai visto. «È stato messo in libertà condizionato in modo automatico, il suo caso non è stato mai posto alla nostra attenzione», dicono dal Parole board. Nessun giudice ha esaminato nulla, sembrerebbe. È stato liberato e basta. I servizi segreti lasciano intendere che è colpa della polizia. Difesa dall’ex capo dell’antiterrorismo Chris Phillips: «È il sistema giudiziario che deve fare i conti con se stesso».
Fatto sta che Usman Khan, in libertà condizionata dall’anno scorso con l’obbligo del braccialetto elettronico, venerdì alle due del pomeriggio correva con due coltelli legati ai polsi sul London Bridge perché scappava dal Fishmonger’s Hall (antico edificio, sede un tempo del sindacato dei pescatori, che si trova sul lato nord del ponte) dove era stato invitato come detenuto modello a una conferenza sulla riabilitazione dei carcerati tenuta dall’Istituto di criminologia dell’Univerisità di Cambridge. Khan era là, ospite dell’università, come esempio concreto di perfetta rieducazione in cella. Ha minacciato le centinaia di persone presenti di farsi saltare in aria. Ha accoltellato a morte Jack Merritt, venticinque anni, coordinatore della conferenza. E poi è scappato sul ponte accoltellando passanti. Sopra le parole dei tanti che straparlano da tre giorni nel tentativo di scaricare su altri il peso di una tragedia evitabile non evitata, quelle del padre di Jack Merritt: «Non utilizzate quanto è successo per inasprire le pene o tenere in carcere le persone oltre il necessario». La polizia s’è data un gran da fare per sottolineare che gli agenti sono arrivati sul posto appena cinque minuti dopo aver ricevuto l’allarme. Dai video girati da testimoni risulta comunque chiaro che Usman Khan non ha fatto altre vittime (oltre a Marritt, una ragazza accoltellata e un’altra ferita gravemente) solo grazie all’intervento efficace di alcuni passanti.
Un facchino. Un agente turistico, Thomas Gray, 24 anni. Un cuoco polacco di nome Luckasz. Un ex funzionario della polizia dei trasporti, quello in giacca e cravatta con il coltello in mano in primo piano in uno dei video. E un assassino, James Ford, 42 anni, rimesso anche lui, come l’attentatore, in libertà prima della fine della pena. La performance di James Ford ha costretto a grandi acrobazie lessicali molti di quelli a cui è toccato descrivere le provvidenziali prodezze sul London Bridge dell’ex strangolatore di una ventunenne disabile, Amanda Champion. Per quell’omicidio è stato condannato nel 2004 all’ergastolo con un minimo di pena di 15 anni da scontare in cella. I genitori di Amanda si sonoritrovati in tv l’assassino della figlia, libero e lodato nel mucchio dal sindaco per aver saputo immobilizzare l’attentatore del Ponte di Londra, e non l’hanno presa per niente bene. I cinque passanti hanno bloccato Kahn scaricandogli addosso il contenuto di un estintore e brandendogli contro il lungo corno di un navalo (una sorta di balenottero unicorno dell’Artico) strappato via dal muro del Fishmonger’s hall per usarlo come spada. Gli si sono scaraventati sopra riuscendo a farlo cadere a terra e gli hanno bloccato le mani pestandole con i loro piedi finché sono riusciti a togliergli i coltelli legati ai polsi. Quando gli agenti sono arrivati Kahn era stato già immobilizzato a terra. Hanno urlato: “Get the fuck back” (toglietevi di torno) e gli hanno sparato. Temevano si facesse davvero saltare in aria. Il giubbotto esplosivo, s’è scoperto dopo, era finto. Sulla libertà condizionata di Kahn sguazza ora Boris Johnson, che da premier in carica vorrebbe portare a un trionfo elettorale i tories britannici, drammaticamente spostati ormai verso l’ultradestra, e consacrare così la sua leadership radicale. Se lui vince con ampio margine, scompare il settore moderato dei tories. E questa è la sua scommessa.
La tragedia del London Bridge gli capita a fagiolo proprio mentre il suo partito, favoritissimo, rimane in testa, ma è dato in discesa.
A queste elezioni i 635 candidati del partito conservatore sono tutti sostenitori della Brexit. Spazzati via i toni tiepidi e le mediazioni possibili i tories, tradizionalmente rappresentanti di un’alleanza politica tra gli interessi dei grandi imprenditori conservatori e il sentimento patriottico, si giocano tutto su Johnson e sulla sua linea dura: fuori dall’Europa costi quel che costi (e chi paga vedremo dopo). «Get Brexit Done», usciamo dall’Europa una buona volta, ripetono i candidati tories. Sperano che la polarizzazione della politica britannica premi la durezza percepita del loro leader, che non dice nulla di davvero chiaro, non prende impegni concreti, ma trasmette, secondo loro, un’immagine di fermezza. Scommettono soprattutto sull’antipatia di Corbyn. Il leader laburista è impopolare rispetto al premier. Eppure i sondaggi lo stanno dando in ripresa. A metà novembre, quindici giorni dopo la convocazione delle elezioni anticipate, il premier era 17 punti percentuali sopra a Corbyn. Questo fine settimana la distanza si era ridotta a 9. Johnson teme da Corbyn, da lui definito “il marxista confuso”, un rush finale sorprendente, un bis della gran ripresa che riuscì al laburista nel 2017. Allora, con la Brexit approvata via referendum da appena un anno, Corbyn riuscì a virare gli ultimi giorni di campagna sulla denuncia dei costi sociali dei dieci anni di austerità inflitti alla Gran Bretagna. Arrivò secondo, ma riuscì a sfiorare il testa a testa e ancora campa di rendita di quella trovata dell’ultimo minuto. Johnson, folle ma accorto, teme che l’antipatico Corbyn abbia, nel frattempo, perfezionato il suo gioco.
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